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RedazioneA tre anni di distanza dall’introduzione delle linee guida Speranza, che hanno ampliato l’accesso all’aborto farmacologico in Italia, soltanto 3 regioni su 20 – Toscana, Emilia-Romagna e Lazio – le applicano.
Le procedure usate in quasi tutta Italia per l’aborto spontaneo continuano a essere più arretrate e restrittive di quelle raccomandate dall’Organizzazione mondiale della Sanità. È quanto emerge da un rapporto di Medici del Mondo (MnM), organizzazione umanitaria medico-sanitaria fondata nel 1980 da un gruppo di medici del quale facevano parte Bernard Kouchner e la sopravvissuta all’Olocausto Alina Margolis-Edelman.
Gli aborti effettuati in Italia con la pillola abortiva Ru486 nell’ultimo trimestre del 2020 (cioè l’unico periodo dopo l’entrata in vigore delle nuove linee guida per cui sono disponibili i dati a livello nazionale) sono stati il 42% del totale rispetto alla media del 31,3% nel periodo gennaio-marzo 2020. In crescita, ma una percentuale molto più bassa di quella analoga in Francia e Inghilterra dove gli aborti farmacologici sono oltre il 70% del totale, o dei Paesi del Nord Europa, dove sono oltre il 90% del totale.
Le nuove linee di indirizzo sono rimaste una buona teoria. Il ministero della Salute ha chiesto alle Regioni di applicarle, ma se non lo fanno non succede nulla spiega la ginecologa Marina Toschi di Pro-Choice, Rete italiana contraccezione aborto, tra le associazioni che più hanno spinto per l’aggiornamento delle linee guida. E infatti tre regioni – Piemonte, Umbria e Marche (tutte governate da giunte di centrodestra) – hanno espressamente deciso di non applicare le nuove linee di indirizzo.
L’aborto farmacologico è molto meno invasivo rispetto a quello chirurgico, ma l’Italia ha sempre previsto molte più restrizioni per l’aborto farmacologico rispetto ad altri Paesi. Poi la riforma Speranza ha esteso la possibilità di effettuare aborti farmacologici fino alla nona settimana e ha abolito la prescrizione del ricovero, oltre a permettere di somministrare le pillole in ambulatori e consultori familiari riconosciuti dalle Regioni. Quest’ultima modifica aumenta il numero di ginecologi che possono somministrare la pillola: non più solo quelli ospedalieri ma anche quelli delle nuove strutture autorizzate.
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