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Costume e Società

Diffamazione a mezzo social: una realtà sempre più diffusa.

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DIFFAMAZIONE

L’io reale coincide con l’io virtuale: la convinzione che fare sul web ciò che non faresti nella vita reale, è assolutamente da abolire. Infatti, le norme parlano chiaro.

Sul web si commettono reati proprio come nella vita reale. Scaricare illegalmente musica da internet e portarla sempre con sé sul proprio smartphone, è come avere lo zainetto pieno di album rubati da un negozio di dischi. Eppure sembra sempre che sui social ogni azione sia lecita, appunto perché basta un click e sembra tutto risolto. Per qualche anno è stato così: non c’è stata una tutela e quindi tutti si sentivano in potere di poter fare ciò che invece era proibito fare nella vita reale.

Piano piano, di pari passo con l’evoluzione di internet, la nascita del web 2.0 e soprattutto l’avvento de social, c’è stato l’intervento del diritto per regolamentare la navigazione su Internet.

Dal revenge porn al reato di pedopornografia con la legge 547 del 1993, il catalogo è andato sempre più ampliandosi, arrivando a toccare anche le coste della diffamazione a mezzo social.

I social.

Si pensa che solo perché si scrivono affermazioni false su una persona sui social, queste non abbiano “reali” conseguenze. E’ una concezione sbagliata questa. In molti casi, ciò che si scrive sui social porta a conseguenze più gravi: il bullismo che molti hanno vissuto sulla propria pelle nelle scuole, spesso si limitava all’intervallo o al post scuola, cosa ben diverse è invece il cyberbullismo, un commento o un video rimangono sul web per sempre, spingendo anche a commettere atti impensabili, quali il suicidio.

I social rappresentano una piazza virtuale in cui discutere, confrontarsi e scambiare opinioni. Tuttavia, talvolta capita che gli animi si accendano e che volino espressioni colorite. Ebbene, è sbagliato pensare che scrivere su una piattaforma web non comporti alcuna conseguenza. Ciascuno è responsabile non solo di quel che fa, ma anche di quel che dice o scrive.

Un commento offensivo sulla bacheca di un amico o su un gruppo può integrare il reato di diffamazione, aggravato dall’uso del mezzo di pubblicità.

Nel nostro ordinamento vige il principio della libertà di manifestazione del pensiero, pertanto, ciascuno di noi è libero di esternare quel che pensa. Tale libertà, però, non è assoluta ma incontra dei limiti. Ad esempio, chi lede la reputazione e la dignità personale di un altro è sanzionabile.

Esempi di diffamazione a mezzo social.

La donna che sul proprio profilo Facebook parla male dell’ex marito risponde penalmente del reato di diffamazione aggravata. Lo stesso è per l’uomo che definisce pubblicamente la propria ex come “mantenuta” (Cass. Pen. 522/2016: nel caso di specie, l’epiteto “mantenuta” era stato scritto sulla causale del versamento del mantenimento). Parimenti, l’autore di un post su Facebook in cui un’altra persona viene apostrofata come “intrallazzatore” risponde di diffamazione aggravata (Cass. Pen. 26054/2019).

La normativa italiana.

Il reato è quello previsto dall’articolo 595, comma 3, del Codice penale che punisce (con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa minima di 516 euro) chi offenda l’altrui reputazione comunicando con un mezzo di pubblicità. Per i giudici, infatti, anche un messaggio postato a un gruppo limitato di amici ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Così, uno sfogo rischia di sconfinare in crimine se, per tenore letterale o contenuto, sfori i limiti del rispetto delle persone coinvolte.

A stabilire i confini tra commenti solo inopportuni e le fattispecie di reato è la stessa giurisprudenza.

 

Le pronunce

Scatta la diffamazione aggravata, ad esempio, per chi con un post visibile a tutti i suoi contatti offenda l’ex accusandolo di non contribuire al mantenimento dei figli (Tribunale di Torino, 299/2020).

Stessa sorte per la moglie separata che in bacheca, considerata luogo aperto al pubblico poiché fruibile dagli iscritti al social, insulti il marito qualificandolo come “un miserabile” bisognoso di cure psichiatriche (Corte d’appello di Cagliari, 257/2020).

Condannato anche chi, riferendosi alla vicenda di un operaio di uno stabilimento siderurgico tragicamente morto sul lavoro, pubblichi sul suo profilo pesanti offese a un sindacalista definendolo “viscido e senza spina dorsale” (Tribunale di Taranto, 123/2020).

Diffamatorio, inoltre, il commento che marchi un giornalista come uno “pseudo giornalaio (…) pagato per blaterare” per infangarne la reputazione e offuscarne il patrimonio intellettuale, politico, religioso, sociale e ideologico (Tribunale di Campobasso, 43/2020).

Il reato si configura se le espressioni adoperate sono tali da gettare una luce oggettivamente negativa sulla vittima.

Del resto, il bene protetto è l’onore “sociale”, ossia la reputazione di qualcuno in un certo gruppo e in un particolare contesto storico.

Prova e risarcimento

Per inchiodare il colpevole di un post offensivo e dimostrarne la “paternità”, puntualizza la Corte di Cassazione con sentenza 9105/2020, è superfluo ricorrere alla macchinosa procedura della rogatoria internazionale nella sede americana di Facebook se l’imputato non solo ha firmato e diffuso lo scritto su siti di libero accesso ma, diffidato dalla persona offesa, ha provveduto a rimuoverlo.

La persona diffamata può quindi costituirsi parte civile nel processo penale. O può rivolgersi direttamente al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno morale da calcolare in via equitativa.

 

Falso profilo

Una fattispecie diversa si configura se si “ruba” l’immagine di una persona per creare una falsa identità digitale. Una falsa identità associata a un nickname di fantasia e da lì si fanno partire delle offese. È infatti configurabile il reato di sostituzione di persona, insieme con la diffamazione aggravata a mezzo stampa qualora con l’acquisizione degli screenshot si appuri che le offese siano state divulgate con post visibili agli “amici” del profilo e non con l’invio di messaggi in privato.

Per scovare l’autore dei contenuti infamanti occorre individuare con gli indirizzi IP (Internet Protocol address) il numero del datagramma che identifica univocamente un dispositivo (host).

 

La diffamazione a mezzo social networks e siti internet

Il reato di diffamazione si può configurare anche quando il contenuto diffamatorio venga propagato attraverso social networks o siti internet ed altri canali telematici.

Anzi, ad onor del vero, si è visto che in tali ipotesi si configura anche la circostanza aggravante dell’utilizzo di un mezzo di pubblicità nella diffusione dei contenuti diffamatori, la quale determina un consistente aumento della pena base a carico del trasgressore.

Ciò chiarito, è innegabile che queste nuove fattispecie di reato pongano delle problematiche prima sconosciute, in special modo in tema di individuabilità dell’autore del reato.

  • Infatti, mentre non sorgono particolari problemi in merito all’identificazione della vittima di diffamazione, lo stesso non potrà dirsi in merito all’identificazione dell’autore del reato. Si reputa necessaria l’individuazione da parte delle autorità inquirenti del c.d. indirizzo “IP”. Ovvero del codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, nel momento stesso della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico. L’indirizzo IP è di fondamentale importanza in quanto consente di individuare la linea da cui è stato pubblicato il contenuto diffamatorio. E permette, altresì, di verificare la corrispondenza o meno a quella riconducibile al soggetto sospettato.

La responsabilità dei propretari dei blog…

  • Un altro problema che ha impegnato a lungo la giurisprudenza degli ultimi anni riguarda poi la responsabilità penale del gestore di un sito internet o di un blog per i contenuti diffamatori ivi pubblicati da altri. Al riguardo, la giurisprudenza ha teso ad escludere la responsabilità del blogger o del gestore del sito, quantomeno in quei casi in cui quest’ultimo non era stato messo a conoscenza del commento offensivo presente sul portale da lui gestito, oppure quando effettivamente era stato informato ma aveva provveduto con solerzia alla rimozione del contenuto contestato. In particolare, si è stabilito che “Il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente. In linea con i principi della responsabilità personale del blogger, è necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest’ultimo al significato dello scritto offensivo dell’altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo.”

Revenge porn e non solo

  • Anche il prestato consenso alla pubblicazione di un dato contenuto su un sito web o su social networks potrebbe non “salvare” dal reato di diffamazione. Qualora il materiale di cui si era autorizzata la pubblicazione dovesse essere divulgato in contesti o per finalità completamente differenti da quelle che avevano indotto la vittima a prestare il suddetto consenso. In particolare, si è affermato che potrebbe configurare il reato di diffamazione anche la pubblicazione in un sito internet di immagini fotografiche (nel caso di specie le fotografie ritraevano una persona in atteggiamenti pornografici). In un contesto e per destinatari diversi da quelli in relazione ai quali era stato precedentemente prestato il consenso alla pubblicazione.
  • Un’altra questione che ha molto impegnato la recente giurisprudenza concerne poi i commenti pubblicati su siti o portali di recensioni (TripAdvisor, Airbnb, ecc.). In cui, come è noto, gli utenti possono manifestare un’opinione personale in merito ai servizi di cui hanno usufruito. Possono esprimere un giudizio che assumerà notevole rilevanza ai fini dello sviluppo dell’attività commerciale o professionale prestata.

 

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