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Joker: folie à deux // RECENSIONE

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Non si può dire che Joker: folie à deux non abbia stupito il pubblico: il film, passato dall’essere la pellicola più attesa dell’anno all’aver ottenuto su CinemaScore il peggior voto per un cinecomics, sta polarizzando l’opinione pubblica. Tra coloro che lo hanno visto, infatti, c’è chi si dice deluso e chi, invece, difende la bontà artistica di questa storia.

Chi ha ragione? Vale la pena vederlo?

Di cosa parla “Joker: folie à deux”?

Dopo un corto animato – che mi azzardo a dire essere la parte migliore del film – il secondo capitolo di questa saga riprende esattamente da dove si era interrotto: Arthur, dopo aver assassinato la madre, un collega, aver confessato un triplice omicidio in diretta tv e ucciso il conduttore Fanklin nel corso della sua trasmissione, è stato arrestato.

In custodia cautelare presso l’Arkham State Hospital, è assistito dall’avvocata Maryanne Stewart, che punta tutto sull’infermità mentale per fargli avere condizioni di detenzione migliori di quelle in cui si trova. Arthur, all’inizio, la asseconda – ma quando incontra Lee Quinzel, nota come Harley Quinn, tutto cambia: la donna, che dice di essere stata internata contro la sua volontà dalla madre e di venire dallo stesso quartiere di cui anche Arthur è originario, lo spinge a non ascoltare i consigli dell’avvocata e a riappropriarsi della propria vita in veste di Joker.

Tra i due scoppia una scintilla e intraprendono una relazione delirante . Giorno dopo giorno, Arthur è sempre più succube della donna e soprattutto delle sue aspettative e, anche quando scopre che Quinn gli ha mentito su tutto, resta al suo fianco. La situazione, però, sfugge al controllo di entrambi nel corso del processo.

Joker tra maschera e umano

Di cosa parla davvero Joker: folie à deux? A metà tra il musical e il legal drama (combinazione non proprio indovinata e che, inevitabilmente, mette a dura prova anche lo spettatore più paziente) il film tenta di fare tante, forse troppe cose. Joker vuole fare critica sociale, parlare dello sdoppiamento di personalità di Arthur attraverso la musica, indagare il rapporto morboso che ha il mondo attuale con i personaggi fittizi, nonché la relazione tra maschera e individuo, tra merce e persona.

Se ci fosse riuscito, sarebbe stato davvero un capolavoro. Ma purtroppo qualcosa è andato storto – e non solo perché il film è un flop e nemmeno per lo score terribile che gli è stato assegnato, ma perché i suoi personaggi sono dei morti.

Personaggi immobili

Fossilizzato in ciò che voleva simbolizzare, Arthur non si evolve, resta fermo – non solo, all’inizio della pellicola, torna inspiegabilmente indietro nel suo arco di trasformazione rispetto al primo film, ma, nella conclusione della sua storia, non trova alcun senso, nessuna catarsi. In lui c’è solo sofferenza, solo impotenza: il mondo nega la sua esistenza fino a ucciderlo. Di Arthur non resta traccia: resta solo un’imitazione grottesca del Joker.

Sorte simile e forse peggiore è quella riservata al personaggio di Harley Quinn. Tratteggiata a stento, poco caratterizzata, non cambia mai: dall’inizio alla fine del film resta identica a se stessa. Non c’è in lei alcuna evoluzione, alcun conflitto. Appare, esiste, sparisce, nell’indifferenza di chi la guarda.

A cosa serve, tutto questo? Forse, lo scopo del film era quello di mostrarci che è più facile amare una maschera, un’idea invece di una persona. Purtroppo, però, di questo messaggio resta ben poco – non c’è pathos, non c’è emozione. Ahimè, c’è quasi solo amarezza e noia.

Uno schianto voluto?

Verrebbe quasi da pensare che questo sia uno schianto voluto.

In alcuni momenti pare quasi che Todd Philips voglia punire le aspettative dello spettatore: così come Arthur disattende quelle di Quinn, perdendo il suo amore, così Philips infrange i sogni di chi ha trasformato il primo film di Joker in un cult, ottenendo solo brutte recensioni e pessimi punteggi. Il regista fa a pezzi la sua creatura, la riempie di calci e la pugnala a morte – ma perché lo fa?

Perché Joker, forse, voleva esporre, sin dal primo film, l’orrore che si nasconde dietro la risata, dietro il mondo dell’intrattenimento, oltre la sua patina dorata. Non c’è niente, ci grida in quest’ultimo film, non c’è amore, qui: c’è solo violenza, ci sono solo pretese. L’arte, per come la intende Hollywood, è un gioco al massacro per le persone dietro il personaggio.

Vale la pena vedere “Joker: folie à deux”?

Insomma: vale la pena vedere Joker: folie à deux? Questa volta, mi riservo il diritto di dire: dipende. Se cercate le emozioni del primo film, lasciate perdere. Se volete intrattenimento e adrenalina, pure.

Se però cercate una riflessione non immediata sull’arte e sulla società in cui viviamo e siete disposti a sopportare due ore e diciotto minuti di canzoni, avvocati e martelli, allora, forse, potrebbe valerne la pena.

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