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2 anni agoon
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RedazioneConoscete questo simbolo: ǝ? In linguistica e fonologia è lo scevà (dal tedesco Schwa, a sua volta dall’ebraico šěwā’): una vocale centrale media, molto comune nel napoletano, che sta facendo tanto discutere in questi giorni.
Ma perché? Negli ultimi anni si è iniziato ad utilizzare lo schwa sui social, in alcuni libri e determinati ambienti, per un linguaggio più inclusivo legato all’esigenza di quelle persone che non ritenevano corretto utilizzare un aggettivo, un articolo o un nome prettamente femminile o maschile, non volendo far rientrare le proprie parole in nessuna delle due categorie, agevolando, ad esempio, coloro che si definiscono not binary (di genere non binario).
Una lingua tanto bella, coltivata e curata come l’italiano corrente, potrebbe risultare alquanto sessista. A dimostrarlo c’è il fatto che da pochissimi anni sono state accettate nel parlare comune le “versioni femminili” di alcuni mestieri come avvocata (e non avvocatessa, di accezione storica negativa) o che le folle vengano espresse unicamente con l’utilizzo del maschile.
Ciò, non è necessariamente un “male”: quella che è la nostra lingua, in continua evoluzione e che cerca di migliorarsi, è il frutto di un lungo percorso storico, fatto di mille insidie e contaminazioni, una lingua che ci ha messo tanto tempo (forse fin troppo) per affermarsi a livello nazionale .
Essa non possiede più quel genere presente nel latino, che abbiamo perso, e in tante altre lingue non neolatine, tra cui l’inglese, che è il neutro. Infatti, un semplice equivalente del “they/them” (molto in voga nell’inglese e sui social), declinato per diversi casi, potrebbe evitare la polemica attualmente in atto.
Da qualche giorno circola in rete un appello partito da un ordinario dell’Università di Cagliari intitolato: Lo schwa? No, grazie. Pro lingua nostra.
Il gruppo firmatario dell’italico testo annovera personalità del mondo accademico e mediatico quali Cacciari, Barbero, Beccaria ma anche Edith Bruck e Ascanio Celestini la cui visibilità ha subito permesso di «fare notizia», perfino sul Times.
Tralasciando il fatto che la “questione schwa”, fino ad ora, è un dibattito aperto e il suo utilizzo, o meno, è a libera scelta della persona, questo insieme di linguisti, giornalisti e suddetti intellettuali hanno deciso di esporre in poche righe quello che secondo loro è
“una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa.”.
Così inizia la petizione.
Il primo paragrafo continua dicendo che l’introduzione dello schwa comporta il “rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.” Certo, potrebbe comportare inizialmente della confusione, così come l’introduzione di un qualsiasi nuovo simbolo, ma nulla che non possa essere insegnato, spiegato o appreso.
Nel secondo paragrafo si parla “di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi” e, come se le minoranze non avessero alcun rilievo, continua danto l’impressione che l’utilizzo dello schwa vada ad intaccare quelle che sono le forme femminili di alcuni mestieri (di qui sopra) mentre, invece, ne lascia libero utilizzo a chiunque e, può essere volontariamente introdotto, per gruppi diversificati, senza ricorrere necessariamente al maschile.
Nell’ultimo paragrafo, definendo l’iniziativa come “il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività.” ci si concentra sulla pronuncia di questo suono, definendolo “Peculiare di diversi dialetti italiani, trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.”
La petizione, che ha raggiunto oltre 20.000 firme su 25.000, è scritta come se l’orgoglio italiano fosse stato permanentemente intaccato, come se, con l’introduzione volontaria (non un obbligo imposto da nessuno) di un semplice simbolo e suono, il nostro intero sistema di valori fosse messo in bilico, come se ci fosse davvero qualcuno a cui presentarla e a cui far prendere provvedimenti nel malaugurato caso in cui, in un messaggio, dovesse scivolare un ǝ di troppo.
Oltre a vedere l’ennesimo tentativo di protagonismo “deu signorǝ”, si noti quella che sembra essere la vera tradizione italiana: voler ostacolare la libertà altrui su questioni che non farebbero del male a nessuno, ma soprattutto della mancanza di empatia verso coloro che, con questo simbolo, potrebbero sentirsi di più a loro agio.
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