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3 anni agoon
Oltre? Sotto? Intorno? Caos, tempeste. Uomini con martelli, uomini con coltelli, uomini con pistole. Donne che pervertono ciò che non possono dominare e denigrano ciò che non possono capire. Un universo di orrore e smarrimento circonda un palcoscenico illuminato, sul quale noi mortali danziamo per sfidare le tenebre.
– Stephen King, 22/11/63
Che attraverso le opere di finzione si possano esorcizzare sentimenti ed emozioni è cosa nota e non da secoli e nemmeno centinaia di anni, ma da millenni. Nel nostro animo abbiamo coscienziosamente costruito un palcoscenico su cui vanno in scena tutti i nostri sentimenti più esasperati, tutte le emozioni che siamo capaci di provare – tanto le più sublimi quanto le più terribili, inenarrabili, orribili.
Attraverso la messa in scena dello spettacolo teatrale o del film, delle tragedie e delle commedie, viviamo emozioni che non ci possiamo (e vogliamo) permettere di provare, vestiamo i nostri sogni più audaci e spaventosi dell’abito della finzione e li facciamo muovere così tra gli scalini della nostra mente, costringendoli entro il cono illuminato del proiettore cinematografico o nascondendoli tra le pagine dei nostri romanzi, mentre noi godiamo di loro al sicuro dalla nostra poltrona di spettatori.
Si è tanto discusso nel corso del tempo del valore catartico delle storie e della rappresentazione – la psicoanalisi ha riconosciuto nelle mosse dei miti e delle tragedie i passi dei primi tabù ancestrali e gli storici hanno ricostruito sul volto di Medea orrori ancestrali deformati in una lezione propagandistica. Nel lungo cammino che ci ha condotto dal freddo nudo e spietato della preistoria al confortevole, noioso e rassicurante calore delle nostre domo-case, abbiamo nascosto nelle storie tutti i nostri sentire più disturbanti e scomodi, tutte le tendenze animali e umane che risultavano essere incompatibili con la società e la civiltà – abbiamo chiuso a doppia mandata in una stanza segreta, piena di maschere e costumi, tutto ciò che rischiava di trascinarci di nuovo nel gelo feroce della natura. Nelle storie abbiamo accumulato tutta la nostra paura.
La paura è la nostra risposta di fronte al pericolo, la risposta più antica e pura della nostra mente di fronte e ciò che ci minaccia. Con buona pace di chi odia i racconti e i film dell’orrore, ogni storia è una storia che parla di paura. Nessuno vuole vedere o leggere una storia in cui il protagonista non rischia niente, durante la quale non ci sia nessuna posta in gioco.
La paura non è fatta solo di fantasmi, sangue e ossa rotte; la paura non è un pagliaccio che sbuca dalle ombre di una fogna e nemmeno è fatta delle pelli cadenti e putrefatte di qualche morto vivente. Abbiamo paura ogni volta che temiamo di perdere qualcosa – la vita, la salute, i nostri cari, un amore o un’amicizia, un risultato o il tempo trascorso per raggiungerlo, il nostro valore e il nostro prestigio. Siamo una specie che ha fatto della propria capacità di vedere oltre l’immediatezza la propria arma, l’unico jolly vincente, e questo ci ha consentito di allenare la nostra paura. Tutto può farci paura, ogni scelta che compiamo induce alla perdita di qualcosa, e nella paura rischiamo di rimanere impantanati senza riuscire più a muovere nemmeno un passo.
E allora, mentre rimaniamo immobili, ghiacciati nella stretta di questa paura erculea, perché guardiamo film pieni di motoseghe, case infestate e teste mozzate? Perché leggiamo libri infestati di uomini crudeli, di demoni potentissimi e mostruosità piene di squame, di ali e di denti?
Perché così possiamo sperimentare quella paura che nel mondo reale potrebbe distruggerci e cementificarci nell’immobilismo più feroce senza alzarci da quella poltrona. Mettiamo addosso alla nostra paura il costume della narrazione e la spingiamo sul palcoscenico illuminato della nostra mente – e mentre gridiamo insieme ai protagonisti o piangiamo per la tragedia che si consuma sulla carta, ce ne liberiamo. Sfinita da quella performance, la paura evapora, lasciando dietro di sé una pellicola e qualche parola, mentre noi, liberati dalla sua presenza ingombrante, ci alziamo e continuiamo a vivere.
Più si ha paura, più si cerca la paura nelle opere di finzione: la storia è fasulla, ma la paura è reale – si tratta quasi un’esorcismo – di una purificazione – parola dopo parola, scena dopo scena, la narrazione addomestica il terrore. E lo allontana dalla nostra vita, strappandolo dalle ossa della realtà.
È una magia. L’unica che esiste per davvero nella realtà.
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