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Perfect Days // RECENSIONE

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Un uomo si alza, si prepara e va a svolgere il suo lavoro. Pranza, cena, legge un libro. Chiacchiera col giovane collega, saluta il cuoco della tavola calda dove è un cliente abituale, ascolta delle musicassette di Patti Smith e Lou Reed. Sorride spesso, piange due volte.

Tutto qui?, potrebbe chiedersi chi legge. Sì: tutto qui. In Perfect Days, l’ultimo film – in 4:3 – di Wim Wenders succede poco altro – la visita a sorpresa di una nipote, un gioco d’ombre, un giro in bicicletta. Ma è tra gli spazi delle azioni e delle parole di Hirayama, nelle fessure della sua routine e nascosta dietro lo specchio di un bagno che bisogna cercare la storia che questa pellicola ci vuole raccontare – la storia di un riflesso sull’acqua, del sole che balla tra le foglie e che rende perfetto un istante che è già passato.

Perfect Days: di cosa parla?

Hirayama è un sessantenne giapponese che vive a Tokyo, dove per lavoro pulisce le toilette pubbliche della città.

Ha delle abitudini che sembrano non cambiare mai e, sebbene parli poco, riesce a intrattenere rapporti cortesi con tutti coloro che lo circondano – il collega fastidioso, la sua quasi-fidanzata cleptomane, il cuoco gentile di una tavola calda, una libraia appassionata, la proprietaria di un ristorante – e a concludere ogni giorno con una lunga notte di sonno. Degli incontri inattesi e degli imprevisti, tuttavia, spezzeranno la sua routine.

Komorebi e serenità

Sotto la linearità delle giornate di Hirayama è nascosta una storia davvero complessa – complessa, e non complicata: una storia composta da tante cose. Perfect Days è un racconto fatto di non-detti, sensazioni accennate, silenzi, attese, una delicatezza a cui i nostri occhi, frastornati da colori sgargianti e laser accecanti, non sono più abituati.

Wim Wenders ci regala un personaggio pieno, che ci racconta, con gentilezza, qualcosa che ha un sapore rivoluzionario: non la felicità e nemmeno un folle amore, ma la serenità.

Hirayama, infatti, è sereno. Spoglia di tutto ciò che non è necessario, la vita di quest’uomo offre spazio a quelle  emozioni leggere e volatili che rendono un giorno, a dispetto di ciò che potrebbe accadere, davvero perfetto.

Questo sessantenne, che allo sguardo superficiale dello spettatore potrebbe apparire quasi uno sconfitto – non ha un lavoro prestigioso né una persona che lo ami e in casa non ha neppure la comodità di una doccia – si rivela essere in realtà un uomo forte: non si lascia divorare dall’ambizione, dal rancore o dal rimorso e nemmeno della paura, ma assapora i suoi giorni, li consuma pienamente senza lasciarsi consumare, immerso tra le ombre dei suoi sogni e la luce del sole che filtra tra le foglie degli alberi.

Hirayama non subisce la vita – nel film ci verrà chiaramente mostrato che lui ha scelto quell’esistenza – ma la vive. Tutto cambia, ci dice la pellicola, e sarebbe assurdo se niente lo facesse: ma il fatto che i giorni finiscano li rende forse meno perfetti?

Perché vedere “Perfect Days?”

Perfect Days è un gioiello complesso, una storia delicata che farà uscire dal cinema con la sensazione di aver ripreso a respirare, di essere un po’ più vivi di prima.

Chi l’ha detto come si deve vivere la vita? Chi ha stabilito come si deve raccontare una storia? Perfect Day ci dimostra che un sessantenne dalla vita modesta può essere un protagonista, che per esserlo non si deve essere eroi e che una storia senza colpi di scena può essere più emozionante di un inseguimento al cardiopalma.

articolo di Simona Lazzaro

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