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Cos’è il Blackfishing e perché è offensivo e razzista

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articolo di Saveria Russo

La pratica del blackfishing è sempre più diffusa nel mondo dei social, dello spettacolo e dell’influencing: ma cos’è il blackfishing e perché si porta dietro una lunga storia di stereotipi e di discriminazioni ancora oggi ignota per molti?

Blackfishing non è solo un neologismo, ma un fenomeno “nuovo” che fa discutere, soprattutto sul web.

Questa parola non ha una vera e propria traduzione in italiano e, tra i neologismi inglesi che prendono sempre più piede nel mondo del web, questo è sicuramente uno dei più recenti: questo termine nsce dalla fusione tra il termine “black” (nero) ed il termine “catfishing” che indica l’attività ingannevole in cui, sui social network, una persona assume una falsa identità.

Questa parola ha cominciato a circolare soprattutto su Twitter ed Instagram verso la fine del 2018, per indicare un fenomeno apparentemente nuovo: ragazze bianche che sui social appaiono come nere o etnie miste. In parole povere è l’azione di appropiarsi della cultura e dei tratti fisionomici delle persone nere e riguarda soprattutto la bellezza femminile.

Blackfishing, Black face e appropriazione culturale

Sono diversi i fenomeni di blackfishing che hanno alimentato il dibattitto sull’appropriazione culturale che si riprensenta ogni volta che il mondo della moda e quello degli influencers sfruttano elementi estetici di una cultura minoritaria: basti ricordare le influencers di origine polacca Emma Hallberg o Aga Brzostowska che si truccano, vestono e atteggiano come le ragazze nere, si scuriscono la pelle con il fondotinta e si pettinano come le donne afro-americane; negli ultimi anni anche celebrities come Kylie Jenner, Kim Kardashian ed Ariana Grande sono state molto spesso accusate di appropiarsi di acconciature e modi di vestire della cultura nere.

Il problema nasce quando una persona, ignorando quelle che sono le problematiche e la storia coloniale della cultura da cui prendono, ne usa i costumi per aggiungere un tocco di “esotico” al proprio stile.

Ma il blackfishing non si ferma solo a questo: l’uso di questo tipo di make up ha portato alcuni ad associarlo alle scene caricaturali e razziste praticate, a fine ottocento, nei teatri, dove gli attori bianchi ridicolizzavano lo stereotipo dell’uomo nero (il cosiddetto stile teatrale della “Black face”).

Lo spirito sicuramente non è lo stesso e sicuramente non ci sono gli stessi intenti razzisti: tuttavia resta il fatto che, anche in questi casi, gli elementi della cultura nera vengono stereotipati e ridotti a semplici stili da sfruttare seguendo la moda del momento.

Le critiche al blackfishing

Per questo motivo, moltissime ragazze nere sui social criticano il blackfishing, sollevando diverse polemiche: alcune, in post e video, hanno ricordato come da piccole venissero prese in giro per le loro labbra carnose e per quegli stessi tratti che ora vengono esaltati; altre hanno sottolineato come la cultura nera venga apprezzata mentre le persone di colore continuano, invece, ad essere discriminate; altre ancora hanno espresso la frustrazione che provano nel vedere sfruttata con leggerezza la cultura nera da persone a cui basta, poi, un tocco di struccante per tornare alla loro posizione di persone bianche privilegiate.

L’accusa a Jesy Nelson e la risposta di Nicki Minaj

Negli ultimi giorni, un nuovo episodio ha riaperto la questione: l’ex membro della girlband inglese Little Mix, Jesy Nelson, è stata accusata di “blackfishing” nel suo nuovo video “Boyz”, ma questa non è la prima volta che il nome della pop star Jesy Nelson viene affiancato al termine blackfishing: infatti sono anni che i fans cercano di “educarla” sulla questione, ma lei ha sempre fatto finta di nulla.

L’accusa a Jesy Nelson è stata scatenata dal singolo di debutto solista Boyz in collaborazione con Nicki Minaj: nel videoclip, infatti, l’artista inglese sfoggia autoabbronzante, parrucche, labbra più carnose del solito e quello che alcuni hanno definito “Blaccent” (accento “black”) e ciò si nota soprattutto quando canta “So ‘hood, so good, so damn taboo”.

Nicki Minaj è arrivata in soccorso di Jesy Nelson durante una live su Instagram l’11 ottobre. La rapper non si è contenuta, andando contro le componenti dell’ex gruppo di Nelson, in particolare Leigh-Anne Pinnock (unica di colore nel gruppo, assieme a Jade di etnia mista), le quali avrebbero attaccato la loro ex collega nei messaggi privati del social network (messaggi rivelati poi falsi).

La Minaj ha continuato a “far vergognare” le ragazze per aver attaccato Jesy Nelson dopo aver passato l’ultimo decennio insieme, con oltre 50 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, accusandole di aver scelto di farlo solo dopo la sua uscita dal gruppo.

La risposta di Jesy Nelson

La scorsa settimana, in un’intervista con Vulture, Jesy Nelson ha detto di non aver mai affrontato le accuse di Blackfishingper tutto il tempo in cui sono stata nelle Little Mix. Poi sono uscita dalla band e la gente ha iniziato ad additarmi all’improvviso. Non ero sui social media in quel periodo, quindi ho lasciato che il mio team se ne occupasse. Ma voglio dirvi questo, amo la cultura nera. Amo la musica nera. È tutto quello con cui sono cresciuta.”

Cosa non vera visto che i fans hanno sempre cercato di “raggiungerla” ed educarla, ma la cantante sembra proprio non capire quale sia il problema.

Il fenomeno del blackfishing in Italia.

Qualcuno potrebbe pensare che questo fenomeno non sia diffuso in Italia, ed invece non è così: in Italia, dipingersi la faccia di nero per imitare o interpretare persone nere, è una pratica che esiste da sempre.
Spesso, e soprattutto, lo si fa in televisione, e in ognuna delle occasioni in cui è accaduto la figura nera finisce per diventare inevitabilmente grottesca e ridicola.

In passato ci sono stati episodi simili: si pensi a Totò mascherato da ambasciatore di un Paese fittizio, il Catonga, che oltre a dipingersi di nero, con tanto di anello al naso, imitava la voce di quella che si pensava fosse la dizione dei neri che parlano italiano.

Sembra, quindi, che nessuno finora abbia messo in discussione una pratica tanto controversa e paradossale: da un lato abbiamo quella che ancora viene vista come parodia, satira o semplice imitazione, dall’altra abbiamo una blackface “spogliata” del suo intrinseco valore discriminatorio e trasformata in lotta antirazzista.

Tuttavia, il punto è che chi ha deciso che questa pratica possa essere utilizzata a proprio piacimento e a seconda dei casi, ora parodia, ora antirazzismo, non sono le persone nere che ancora oggi subiscono discriminazioni simili sulla propria pelle, ma chi queste stesse discriminazioni non le ha mai subite.

Fingersi neri per un giorno, per una festa in maschera o per uno spettacolo risulta essere una presa in giro nei confronti di chi è nero 24 ore su 24, con tutto ciò che ne deriva: da aggressioni verbali o fisiche gravi, a microaggressioni giornaliere, luoghi comuni, stereotipi o commenti fuori luogo sulla propria pelle o sulla propria provenienza. È come se essere neri diventasse automaticamente uno scherzo o una moda, almeno per chi può fingere di essere nero per sfizio, per poi lavare via quel colore che, nella realtà, può essere un fattore problematico per la società in cui si vive.

In Italia si cerca sempre una via di fuga per tentare di non affrontare un problema, in questo caso legato alla rappresentazione dei neri nei media che influenza l’opinione pubblica tutta.

E’ vero che l’Italia ha una storia differente, ma questa tendenza a voler sempre autoassolversi da tutti i mali solo perché nel mondo c’è sempre un paese “che fa peggio di noi”, non porta a risolvere il problema anzi bisognerebbe parlare di più del razzismo.

Le vignette dell’epoca coloniale fascista di Enrico De Seta, sono un esempio di come venivano viste le persone nere dai coloni italiani: uomini da distruggere, le donne da comprare come schiave e stuprare, entrambi raffigurati in maniera caricaturale.

Il razzismo è trasversale, strutturale, velato e si trova su molteplici livelli che devono essere decostruiti, a partire anche da quella che è un’attenta riflessione sull’origine di certi modi di dire e l’unico modo per farlo, è quello di fare un passo indietro e ascoltare chi vive in modo quotidiano queste esperienze, cercando di capire il loro punto di vista.

Il colore della pelle non è, e non sarà mai, una semplice maschera da mettere e da togliere a proprio piacimento.

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