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Letteratura

Premio Strega: diffusi i titoli candidati

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Anche quest’anno, come sempre, si rinnova l’attesa tradizione del Premio Strega e oggi sono stati diffusi i titoli proposti dagli “Amici della Domenica” per il Premio Strega 2022.

I titoli proposti: chi vincerà lo Strega?

Questi i titoli proposti e le motivazioni addotte dagli “Amici della Domenica”. C’è qualche titolo che preferite? Quale pensate che possa essere il vincitore? Noi abbiamo già puntato qualche titolo…

Novà di Fabio Bacà

Edito da Adelphi, questo titolo è stato presentato da Diego de Silva.

Del cervello umano, Davide sa quanto ha imparato all’università, e usa nel suo mestiere di neurochirurgo. Finora gli è bastato a neutralizzare i fastidiosi rumori di fondo e le modeste minacce della vita non elettrizzante che conduce nella Lucca suburbana: l’estremismo vegano di sua moglie, ad esempio, o l’inspiegabile atterraggio in giardino di un boomerang aborigeno in arrivo dal nulla. Ma in quei suoni familiari e sedati si nasconde una vibrazione più sinistra, che all’improvviso un pretesto qualsiasi – una discussione al semaforo, una bega di decibel con un vicino di casa – rischia di rendere insopportabile. È quello che tenta di far capire a Davide il suo nuovo, enigmatico maestro, Diego: a contare, e spesso a esplodere nel modo più feroce, è quanto del cervello, qualunque cosa sia, non si sa. O si preferisce non sapere.”

Diego de Silva ha così spiegato le motivazioni che lo hanno portato a proporre questo titolo:

«Fabio Bacà è l’ex esordiente più anomalo che conosca. Alla terza pagina del suo primo romanzo, Benevolenza cosmica, ero già fuorviato dalla maturità di una scrittura in cui non c’era ombra di acerbo, di veniale. Come un musicista giovanissimo che suona lo strumento perfettamente, e per di più inventa soluzioni armoniche mai sentite.
A conquistarmi del tutto fu il senso dell’umorismo, una dote di cui pochi autori dispongono.
Poi esce Nova, un libro diverso, letterario nel senso più seducente del termine, che racconta a scopo di riflessione. Parla di violenza e di vigliaccheria. A queste due categorie inflazionate dall’etica restituisce un senso culturale molto più autentico e comunemente sottostimato.
La scrittura ha una puntualità e un’esattezza che mi hanno confermato il valore di un autore che oggi trovo ancora più forte di quando l’ho conosciuto.
Presentarlo allo Strega è un vero motivo di orgoglio. Perché su Bacà avrei scommesso fin da subito.»

Perché non sanno di Buzzolan

Edito da Mondadori, questo titolo è stato presentato da Paolo Mieli.

Cecilia ha trent’anni ma ha già vissuto molto, probabilmente troppo. Ha perso tutto e tutti che era ancora ragazzina, e nel corso degli anni, lentamente, con caparbietà, è riuscita a rimettersi al mondo. Ora fa il vino, in società con la sua migliore amica, e si accinge a costruire una famiglia tutta sua. Per lei dovrebbe essere giunto, finalmente, il momento di buttarsi alle spalle fatica, sofferenza, incertezza e cominciare a vivere davvero. Allora perché, quando riceve via mail da un indirizzo sconosciuto la foto di un adolescente altrettanto sconosciuto, si convince che non si tratti di banale spam bensì di Thomas, figlio del suo amato fratello Gregorio, trader emigrato a Londra e scomparso in un incidente aereo all’indomani del grande crollo finanziario del 2008? Perché è disposta a tutto – salire su navi e aerei, perdersi in luoghi remoti, seguire ossessivamente anche le tracce più labili – per capire se il ragazzo della foto sia davvero il nipote che ha visto solo in un paio di foto da neonato e poi mai più, unico superstite della sua martoriata famiglia? Perché mettere a rischio tutta la sua vita presente per braccare un fantasma del passato? Al culmine di una disperata ricerca dentro e fuori di sé, che incrocia drammi e vittime di quel ricorso spietato della Storia che chiamiamo crisi economica e che in realtà – come lei stessa ben sa per averlo vissuto sulla propria pelle – è un’interminabile sequela di storie individuali, di persone in carne e ossa segnate per sempre, Cecilia troverà in un luogo sconosciuto, quella Grecia che è origine del mondo e insieme Paese più martoriato dalla Grande Crisi, una verità sconvolgente e crudele – e al tempo stesso la propria redenzione.”

Paolo Mieli ha spiegato così le motivazioni che lo hanno portato a proporre questo romanzo:

«Con queste righe intendo presentare alla vostra attenzione Perché non sanno, romanzo di Dario Buzzolan (Mondadori).
Opera di ampio respiro, distesa lungo un arco cronologico ventennale, Perché non sanno riesce nell’intento, oggi raro, di incarnare personaggi vivi entro la nostra contemporaneità, in particolare in quel complesso movimento di crisi finanziaria, bancaria ed economica che ha segnato dolorosamente gli ultimi quindici anni. La vicenda di Cecilia, giovane donna costretta a misurarsi troppo presto con la perdita e con la necessità e a ricostruire da sola la propria vita, trascorrendo faticosamente dal buio alla luce, diventa così emblema esistenziale e storico senza tuttavia perdere l’umana concretezza di un personaggio nitidamente stagliato, capace di permanere a lungo nell’anima del lettore.
In questa capacità di fondere vita e storia in una trama avvincente, caratterizzata da un linguaggio essenziale e profondo e da una struttura narrativa sorprendente, Buzzolan conferma l’attitudine non comune – già rivelata in opere precedenti – a trasformare il romanzo in un mondo, indagando le radici dell’oggi con rigore quasi storiografico e, al tempo stesso, con la pietas di chi si sente in pulsante connessione con le vicende e i personaggi cui dà forma e voce.»

E poi saremo salvi di Carati

Edito anche questo da Mondadori, questo titolo è stato presentato da Andrea Vitali.

“Aida ha appena sei anni quando, con la madre, deve fuggire dal piccolo paese in cui è nata e cresciuta. In una notte infinita di buio, di ignoto e di terrore raggiunge il confine con l’Italia, dove incontra il padre. Insieme arrivano a Milano. Mentre i giorni scivolano uno sull’altro, Aida cerca di prendere le misure del nuovo universo. Crescere è ovunque difficile, e lei deve farlo all’improvviso, da sola, perché il trasloco coatto ha rovesciato anche la realtà dei suoi genitori. Nemmeno l’arrivo del fratellino Ibro sa rimettere in ordine le cose: la loro vita è sempre “altrove” – un altrove che la guerra ha ormai cancellato. Sotto la piena della nostalgia, la sua famiglia si consuma, chi sgretolato dalla rabbia, chi schiacciato dal peso di segreti insopportabili, chi ostaggio di un male inafferrabile. Aida capisce presto che per sopravvivere deve disegnarsi un nuovo orizzonte, anche a costo di un taglio delle radici. “E poi saremo salvi” è insieme un romanzo di formazione, una saga familiare, l’epopea di un popolo; ma è soprattutto il racconto di come una piccola, densa vicenda privata può allargarsi fino a riflettere la tensione umana alla “casa”, il posto del cuore in cui ci riconosciamo.”

Con queste parole Andrea Vitali ha spiegato le motivazioni che lo hanno condotto a proporre questo titolo:

«E poi saremo salvi non è solo la storia di Aida, profuga bosniaca che giunge in Italia appena in tempo per sfuggire agli orrori dei massacri. È anche quella di un padre a volte padrone e a volte bambino, di una madre che comprime il profondo e a tratti disperato amore per i figli al punto di dare talvolta l’impressione di essere assente. E infine è anche la storia di due schizofrenie entrambe vere: quella che ha lacerato i Balcani e l’altra, quella che affligge Ibro, il fratello di Aida, un crudo quadro di realtà che in alcuni passaggi diventa un commosso inno alle fragilità dell’essere umano. A ciò si aggiunge il pregio della scrittura di Alessandra Carati che non si concede al di più, non ha tempo da perdere. La storia che narra è una catena priva di anelli deboli o se si preferisce un rosario laico dove ciascun grano va tenuto tra le dita il tempo necessario per meditare ciò che gli spazi bianchi lasciano intendere. Il lettore goloso di novità vi trova di che soddisfare il suo appetito, il neofita potrebbe usare E saremo salvi come viatico per entrare con stupore nel mondo in cui una penna riesce a raccontare il bello e il brutto della vita, i ricatti dei sentimenti, la necessità dell’egoismo quando si sta per affogare. Anche la pace di chi riesce a salvarsi pagando il debito di scelte inevitabili destinate a diventare cicatrice dell’anima. Difficile staccarsi dalle pagine di questo romanzo fino alla silenziosa nevicata che lo chiude, offrendo al lettore l’ennesima sorpresa.»

Spatriati di Desiati

Edito da Einaudi, questo titolo è stato presentato da Alessandro Pipierno.

Claudia è solitaria ma sicura di sé, stravagante, si veste da uomo. Francesco è acceso e frenato da una fede dogmatica e al tempo stesso incerta. Lei lo provoca: lo sai che tua madre e mio padre sono amanti? Ma negli occhi di quel ragazzo remissivo intravede una scintilla in cui si riconosce. Da quel momento non si lasciano più. A Claudia però la provincia sta stretta, fugge appena può, prima Londra, poi Milano e infine Berlino, la capitale europea della trasgressione; Francesco resta fermo e scava dentro di sé. Diventano adulti insieme, in un gioco simbiotico di allontanamento e rincorsa, in cui finiscono sempre per ritrovarsi. Mario Desiati mette in scena le mille complessità di una generazione irregolare, fluida, sradicata: la sua. Quella di chi oggi ha quarant’anni e non ha avuto paura di cercare lontano da casa il proprio posto nel mondo, di chi si è sentito davvero un cittadino d’Europa. Con una scrittura poetica ma urticante, capace di grande tenerezza, dopo “Candore” torna a raccontare le mille forme che può assumere il desiderio quando viene lasciato libero di manifestarsi. Senza timore di toccare le corde del romanticismo, senza pudore nell’indagare i dettagli più ruvidi dell’istinto e dei corpi, interroga il sesso e lo rivela per quello che è: una delle tante posture inventate dagli esseri umani per cercare di essere felici. «A volte si leggono romanzi solo per sapere che qualcuno ci è già passato». Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell’atrio della scuola: è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio di vita. Cresceranno insieme, bisticciando come l’acqua e il fuoco, divergenti e inquieti. Lei spavalda, capelli rossi e cravatta, sempre in fuga, lui schivo ma bruciato dalla curiosità erotica. Sono due spatriati, irregolari, o semplicemente giovani. Un romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé, sulle amicizie tenaci, su una generazione che ha guardato lontano per trovarsi.”

Alessandro Pipierno ha così motivato la sua proposta:

«Lasciatemi dire, anzitutto, che sono pochi gli scrittori italiani contemporanei che abbiano saputo imprimere al proprio itinerario letterario una coerenza così implacabile. Dai tempi lontani Desiati ha saputo restare fedele al suo mondo con un’ostinazione sorprendente.
Ecco, a mio giudizio, Spatriati è il suo libro migliore, il fiore della maturità, quello in cui i temi, le atmosfere e lo stile raggiungono una sintonia incantevole. C’è qualcosa allo stesso tempo di magico e sinistro nel pezzo di Puglia dove nascono, vivono e soffrono i personaggi di Desiati quasi tutti provenienti dalla piccola borghesia rurale. Rivelano un’inquietudine fatta di slanci romantici e appetiti sessuali, da un amore complicato per la terra d’origine e un desiderio altrettanto complesso di fuggire verso metropoli violente e inospitali. La sua prosa è un crocevia di registri deliberatamente antitetici: lirismo e causticità, sentimentalismo e ferocia. Per ottenere questi effetti, Desiati mescola con mano sempre più salda forbitezza letteraria e inflessioni colloquiali, talvolta persino dialettali ma senza mai inciampare nel pittoresco. Occorre sottolineare che questo impasto linguistico consente a Desiati di scrivere scene di sesso straordinariamente plausibili, e per questo persuasive e mai ridicole.
Chi sono gli spatriati? Mi verrebbe da dire che sono i “marinai scordati su un’isola” della famosa poesia di Baudelaire, quindi tutti noi.»

Giuditta e il monsù di DiQuattro

Edito da Baldini+Castoldi, questo romanzo è stato presentato da Franco Di Mare.

Ibla, 1884. A Palazzo Chiaramonte, una notte di maggio porta con sé due nascite anziché una soltanto. Fortunato, abbandonato davanti al portone, e Giuditta, l’ultima fimmina di quattro sorelle. Figlia del marchese Romualdo, tutto silenzi, assenze e donne che non si contano più, e di sua moglie Ottavia, dall’aria patibolare e la flemma altera, è proprio lei a segnare l’inizio di questa storia. Lambendo cortili assolati e stanze in penombra, cucine vissute ed estati indolenti, ricette tramandate e passioni ostinate, il romanzo si spinge fin dove il secolo volge, quando i genitori invecchiano e le picciridde crescono. C’è chi va in sposa a un parente e chi a Gesù Cristo, ma c’è pure chi l’amore, di quello che soffia sui cuori giovani, lo troverà lì dov’è sempre stato: a casa. Dopo “Donnafugata”, Costanza DiQuattro invita a sfogliare un nuovo album di famiglia, fatto di segreti inconfessabili, redenzioni agrodolci, e tanta, infinita dolcezza.”

Franco di Mare ha spiegato con queste parole i motivi della sua proposta:

Giuditta e il monsù è un romanzo corale e introspettivo che racconta di un amore impossibile in una Sicilia bruciata dal caldo e dalle passioni.
Decadenza e futuro si incontrano e scontrano nella verità di un libro tenero e crudele al contempo.
È una fotografia non troppo ingiallita di una certa nobiltà siciliana, ancorata a rigide tradizioni e dilaniata da scomode verità. È una storia dentro la storia in cui l’amore diventa un pretesto capace di raccontare l’ineluttabilità del destino. Con una scrittura che sembra aderire più ad una sceneggiatura da nouvelle vague francese, tra Truffaut e Bunuel, Costanza DiQuattro usa la penna come se fosse una macchina da presa che sfonda le quinte teatrali e arriva, attraverso una potentissima vis teatrale, a fare vivere al lettore ambienti, odori, emozioni e sentimenti attraverso un linguaggio unico e singolare. C’è tutto dentro la scrittura di DiQuattro; c’è la musicalità di un dialetto arabo e greco, francese e spagnolo fatto di accenti forti e di lunghe distese, di dialoghi serrati e intime riflessioni in cui poesia e prosa sembrano confondersi e cedersi il passo continuamente. C’è il cinema dei campi larghi dei fratelli Taviani e quello della folla perfettamente sincronizzata di Tornatore. C’è il teatro, tanto teatro, di quello popolare che unisce, in un’unica campata, Scarpetta e Pirandello. Un continuo susseguirsi di colpi di scena che la sapiente “drammaturgia” del romanzo rivela pagina dopo pagina fino a un finale inaspettato ed epico, degno di un epilogo da tragedia greca.

Lingua madre di Fingerle

Edito da Italo Svevo edizioni, questo titolo è stato proposto da Raffaele Manica.

Paolo Prescher, bolzanino di lingua italiana, è ossessionato dalle parole che si sporcano. Dopo la morte del padre, si trasferisce a Berlino dove lavora come bibliotecario. Ma il ritorno a Bolzano, al bilinguismo, e la nascita del figlio lo fanno ripiombare tragicamente nella mania della lingua.

Raffaele Manica racconta così le ragioni della sua proposta:

«Desidero candidare all’edizione 2022 del Premio Strega Lingua madre di Maddalena Fingerle (Italo Svevo), riflessione sulla forza della lingua e romanzo di grande energia.
La vicenda parte dalla città di nascita dell’autrice, una Bolzano odiata per la retorica del bilinguismo, per diventare figura dell’abbandono di una lingua, l’italiano, nella ricerca di un’altra lingua, incontaminata. Il senso di questa ricerca sembra avverarsi quando il protagonista, Paolo Prescher, arriva in una Berlino che, in una biblioteca, apre all’incontro con Mira, colei che sembra finalmente capace di “pulire le parole”.
Già premiato quando ancora inedito (Premio Calvino 2020), Lingua madre è poi stato variamente premiato come esordio di grande rilievo (Premio Flaiano Under 35; Premio Comisso Under 35; Premio Fondazione Megamar), incontrando una notevole attenzione di critica e un significativo riscontro di pubblico.Merita di essere presentato col rilievo che merita agli Amici della domenica.»

Il nostro meglio di Forgione

Edito da La Nave di Teseo, questo romanzo è stato presentato da Wanda Marasco.

Amoresano è cresciuto a Bagnoli con i nonni, una famiglia semplice con una vita fatta di piccoli gesti, bestemmie senza cattiveria e una saggezza popolare che tocca il cuore delle cose. Ora Amoresano vive con i genitori a Soccavo, va all’università. Osserva tutti e parla poco, la storia con la fidanzata non va, il suo rifugio è la lettura, le frasi che annota sono la sua ribellione silenziosa. Suona la chitarra e, a volte, sogna quasi di fare un disco con l’amico Angelo, che freme per fuggire a Londra. Nel mondo di Amoresano, sui treni che prende girando attorno a Napoli e ai suoi desideri, il pensiero torna sempre a quella nonna che l’ha cresciuto e che gli pare più avanti di tutti, che preferisce i murales ai muri abbandonati, che sa scegliere il momento migliore per arrabbiarsi, che insegna a voler bene alle persone giuste. Come cambia la nostra vita quando dobbiamo fare a meno di ciò a cui teniamo di più? Amoresano rincorre la sua risposta nei passi fino alla tabaccheria di Maria Rosaria, nella traiettoria di quello sguardo diverso eppure uguale, dentro le notti di un’estate calda e possibile, a scambiarsi libri e film come domande, millimetri di pelle come tentativi. Una ricerca confusa e inquieta che rimbalza sul terrazzo di Anna, in un’isola fuori stagione, a bordo di motorini lanciati nei viali della città a improvvisare fughe, a scrivere ritirate. Nuotando nella memoria, il suo bene più urgente, osando e rifiutando bellezza, che pure non basta quando pensiamo di non meritarla, inseguendo un dolore inevitabile per vedere fin dove ne arrivano le diramazioni, Amoresano scopre il prezzo rovente dell’amore che abbiamo ricevuto e di quello che non sappiamo dare. Alessio Forgione, dopo Napoli mon amour e Giovanissimi (candidato al premio Strega 2020), torna con un romanzo di fallimenti e conquiste, un nuovo, impetuoso lessico familiare del nostro tempo.”

Così Wanda Marasco spiega la sua proposta:

«Il nostro meglio è un romanzo ipnotico. La scrittura di Alessio Forgione, con la forza della verità e della poesia, inchioda a una dolorosa realtà in atto. La storia si svolge a Napoli, fra le periferie di Soccavo e Bagnoli e il centro della città. Il giovane Amoresano, spinto dal sentimento della perdita, compie una ricerca di senso attraversando vuoti e fratture dei luoghi e del tempo. Il motore di questo cammino è una notizia giunta come un fulmine: la nonna che lo ha cresciuto ha un tumore, le resta poco da vivere. Il dramma genera la cognizione del dolore e l’attesa della morte annunciata, divarica nello iato fra passato e presente la vita di Amoresano. Da questo momento la successione dei giorni si presenta con il rigurgito delle domande senza risposta. Il cammino si fa più errabondo, la memoria dell’infanzia è un mondo parallelo, definitivamente separato dal presente anestetizzato e nebbioso. Ogni passo corrisponde a uno strato della mente e del cuore in cui penetrano gli incontri con gli amici e gli amori. Il dolore e l’impotenza si nominano in un’atmosfera limbale come drammi della separazione, della incomunicabilità e degli sfioramenti impauriti. Ma Alessio Forgione ha scritto anche un romanzo di incomparabile dolcezza, rivoluzionario, fondendo la lezione del neorealismo e la suggestione del flusso di coscienza. Leggendolo si viene conquistati da una lingua-partitura, capace di mimare il battito percussivo della realtà e l’onda dei moti interiori.»

Atti di un mancato addio di Ghiotti

Edito da Hacca Edizioni, questo romanzo è stato presentato da Sandra Petrignani

“I protagonisti di questa storia crescono come fanno i lupi, oscillando tra l’istinto del branco e il bisogno di solitudine. Un gruppo di amici si ritrova così insieme ad esplorare il mondo, l’esperienza del mondo; stando vicini, ma con il continuo richiamo della separazione. Sarà Giulio a scansarsi per primo, in uno scarto improvviso e misterioso, chiedendo a Massi, Cecchi, Trorrola, Fabrizia, Mastino di mettere in pausa le proprie vite, ogni tanto, solo per un attimo abbacinante, e provare a cercarlo, almeno nella loro memoria.”

Sandra Petrignani ha spiegato con queste parole i motivi che l’hanno spinta a proporre questo romanzo:

«Giorgio Ghiotti è giovane (27 anni) e ha scritto un romanzo sulla giovinezza come fosse un’epoca lontanissima. Così costringe il lettore alla domanda: quando finisce una volta per tutte la gioventù? In Atti di un mancato addio(Hacca) la risposta sta forse in questa frase del protagonista: “Sento di non aver mancato l’appuntamento con la mia vita di prima”. Possiamo dunque dichiarare conclusa la prima parte della nostra vita, quando arriviamo a una conciliazione fra un prima giovane e un dopo adulto?
Libro di grandi domande, come appunto nell’adolescenza, e di sensazioni epidermiche, questi Atti riescono nella magia di rendere vera una storia inventata non limitandosi a raccontarla, ma trasformandola in un’esperienza personale, viva, comune anche a chi legge. C’è un gruppo di ragazzi e ragazze. A un certo punto uno di loro, Giulio, sparisce senza lasciare indicazioni. Comincia la ricerca che non porterà a niente se non ad alcune apparizioni fantasmatiche e a fare i conti con sé stessi. Ghiotti, dal notevole poeta che è, procede per intuizioni, memorie, illuminazioni. Usa la seconda persona, tu, dice io, dice noi. Gioca col passato e il presente, mette lo zaino sulle spalle dei suoi personaggi e li lancia in un viaggio che si rivela una corsa sul posto, un girare intorno alla ricerca di un senso della vita che non c’è, se non nel fatto incontestabile di essere esistiti davvero, e di riuscire a esistere sul serio ogni giorno.
Una volta Valerio Magrelli, presentando in libreria una raccolta di racconti di questo scrittore, parlò della sua appartenenza a “un’unica sorprendente famiglia stilistica” alludendo all’eco nella sua voce di narratori italiani di difficile classificazione, e soprattutto narratrici, irregolari eppure classici, da Ortese a Ginzburg, da Lalla Romano a Fleur Jaeggy. Sicuramente, e per fortuna, Ghiotti non somiglia a certi autori più recenti che scambiano la giovinezza, e il tentativo di rappresentarla letterariamente, per un’età cruda dal linguaggio barbaro e sgrammaticato, dall’afasico e violento modo di conquistarsi il proprio posto nel mondo per rimanerne in genere schiacciati e sconfitti. Giorgio racconta senza estremismi, nella consapevolezza che la realtà è molto più sfaccettata e complessa.»

Quando le belve arriveranno di Palomba

Edito da Wojtek Edizioni questo titolo è stato proposto da Riccardo Cavallero.

Un giovane uomo, tormentato da una vita familiare miserabile, si trasferisce in un’anonima cittadina con l’incarico di docente di sostegno. Malgrado i tentativi di costruirsi una nuova dimensione di normalità, tutto gli comunica messaggi indecifrabili: la realtà intorno a lui diventa, giorno dopo giorno, più allucinata e gli altri – colleghi, alunni, concittadini – sembrano mutare in creature bestiali, meschine, forse pericolose. Comincia così un deragliamento in cui si sovrappongono reale e onirico, fotogrammi dal passato ed esperienze concretissime, frammenti di verità e terrificanti fantasmagorie. Solo Haochen, l’alunno affidato alle cure del protagonista, apparirà immune alla corruzione che intacca e guasta ogni cosa.”

Queste le motivazioni addotte da Riccardo Cavallero riguardo la sua proposta:

«È per me un piacere presentare il romanzo Quando le belve arriveranno di Alfredo Palomba, Wojtek.
Dopo Teorie della comprensione profonda delle cose, il nuovo romanzo di Alfredo Palomba conferma ed esalta le doti narrative di un autore che non teme sfide coraggiose di costruzione del pensiero, dell’intreccio, di scelta dello sguardo sulla realtà. Un giovane uomo totalmente anaffettivo abbandona nonna e madre alcolizzata per andarsene a insegnare come professore di sostegno nella scuola di un piccolo, tristissimo paese di provincia. L’allievo che ha in carico è un bambino cinese microcefalo col quale instaura un rapporto di minima comprensione e umanità: l’unico, mentre tutti quelli che lo circondano (i colleghi, la proprietaria di casa, il bidello, i negozianti) rivelano poco a poco tratti, appetiti, voracità di belve. E di belve ammalate, infettate senza scampo.
Attorno al fiume che scorre nel paese si consumerà l’orrore finale. Perché in questo libro dalla stupefacente compattezza narrativa, capace di spietata lucidità nel raccontare la dolorosa mancanza di empatia cui ci siamo ridotti, in cui la tensione della parola è abilmente mascherata dall’ordinario resoconto di giorni senza gloria, la salvezza è nel coraggio dell’orrore.»

La foglia di fico. Storia di alberi, donne, uomini di Pascale

Torniamo a un titolo Einaudi, proposto questa volta da Francesco Piccolo.

«Negli anni ho cominciato a pensare che qualunque strada si possa intraprendere per la felicità, questa debba necessariamente passare per una pineta. Una pineta da attraversare e un mare da raggiungere». C’è in questo libro l’invenzione di una forma, felicissima e leggera: il racconto in fiore, dove ogni uomo si staglia come un albero, a braccia aperte sotto il cielo. Una ramificazione di storie, intrecciate come l’edera, antiche come il grano, contorte e nodose e belle come i tronchi di olivo. Imparando a leggere le piante forse si scorgono le donne e gli uomini così come sono, nel ciclo spontaneo della loro natura, contraddittoria e vitale. Entrate sotto l’ombra dei rami in fiore: qui ci siete voi.”

Così Francesco Piccolo ha motivato la sua proposta:

«Candido La foglia di fico di Antonio Pascale (Einaudi) perché è un libro miracoloso per la capacità di alzare lo sguardo e sciogliere la conoscenza di alberi e piante in un (auto)ritratto dell’esistenza, in una tensione narrativa commovente e comica, in una forma originalissima, e con personaggi impossibili da dimenticare: la complessità inafferrabile della ragazza spinosa, con cui non avremo mai il coraggio di fuggire perché le radici sono più forti di tutto; o la figura del padre, al quale si riconosce la capacità di offrire tutta la sua saggezza, non solo botanica, e quindi tutti i mezzi che questo libro utilizza per comprendere il mondo.
La foglia di fico non è una storia sentimentale ma possiede invece, e restituisce, il sentimento per la fragilità degli esseri umani nello strazio del tempo che passa. Pascale accoglie questo tempo, lo rielabora con sapienza e umanità, tra terra e cielo, e alla fine ci si è dimenticati di aver avuto a che fare con un libro, ma si è certi di aver avuto a che fare direttamente con la vita.»

La parte di Malvasia di Policastro

Secondo titolo anche per La nave di Teseo, presentato da Romana Petri.

Chi è Malvasia? Una donna che arriva non si sa da dove e che vive in paese da “straniera”: colta, anticonformista, eccentrica, l’hanno vista fare una lunga passeggiata e da quel momento di lei si sono perse le tracce. Quando viene ritrovata morta, si pensa all’omicidio passionale e scattano le indagini, affidate al commissario Arena e al suo assistente Gippo. Nel susseguirsi di testimonianze e di ipotesi, indagatori e indagati prendono a confondersi. Il giallo della morte diventa il grigio delle esistenze di individui mortificati nelle loro ambizioni e svelati nelle loro nature contraddittorie ed elastiche, nella capacità di provare sentimenti opposti e di compiere azioni impensabili. Come nella tragedia greca, l’umano supera se stesso nell’estremo, ma nella tragedia moderna si muore senza un motivo e senza un colpevole. Un romanzo in cui la domanda sull’assassino diventa l’indagine compiuta all’interno della stanza più segreta della coscienza, dove immaginazione e crudeltà, violenza e tenerezza sono parte della stessa radice. Le storie che ruotano attorno a Malvasia somigliano a un puzzle esploso, le cui tessere non vanno quasi mai a posto. Come nella vita.”

Queste le motivazioni di Romana Petri riguardo la proposta di questo titolo:

«Gilda Policastro è al suo quarto romanzo e in quest’ultima prova mette a segno un colpo da narratrice di razza: fingere di voler avviare un’indagine su una donna morta e inscenare un teatro di voci che coralmente raccontano più vite, in coerenza con il riferimento del titolo al vitigno. Una morte e tante vite, perché “il morto non è un morto ma la morte”: quasi mai un accadimento eccezionale, come in un delitto, ma un momento atteso e fatale, specie nella sua imminenza dopo una diagnosi. Questo La parte di Malvasia lo racconta anche intessendo il narrato di citazioni e riferimenti colti (dal Gadda della Cognizione del dolore al Beckett del Krapp’s Last Tape), ma non è in questo la sua potenza. Piuttosto, nell’oscillazione della coscienza (di cui la pagina restituisce il flusso) dalla lucida consapevolezza della fragilità al buio in cui la precipitano i vuoti di senso come la malattia. Il tema, già caro all’autrice nell’esordio del Farmaco, viene qui affrontato con una nuova, più dolente umanità: nel rapporto tra Malvasia e sua madre morente si ritrovano i contrasti (“il confine esteriore dei vestiti e quello introiettato dei divieti”) e peggio ancora i non detti della più stretta tra le maglie della vita sociale, la famiglia, luogo parossistico e ossimorico di dolore e di cura. Una delle più belle pagine del libro è dedicata alla ricostruzione pseudoetimologica del verbo dialettale cuttuniare: proteggere, allestire una cuccia, ma anche costringere, trattenere, soffocare. La parte di Malvasia è un libro da leggere non tutto d’un fiato, come si dice spesso dei romanzi, ma a voce alta: per apprezzarne il ritmo, i nutrienti della scrittura, dalle percezioni minute alle pseudo-sentenze (“Madre è la specie dell’insoddisfazione”). Gilda Policastro non ha l’aspirazione del giallista, non vuole mettere tutto in ordine e arrivare a un esito: anzi, all’opposto, incaricando ambiziosamente di accostarsi a un tema irriferibile come la morte di una persona cara, disordina la trama in pezzi come in un quadro cubista e la ricompone come fa la vita, senza troppa coerenza e prevedibilità. Alla fine, quello in cui riesce Malvasia è rivivere, dopo la morte, senza concedere alibi a nessuno: a chi legge, e tantomeno a chi scrive.»

È tardi! di Savarese

Anche per Wojtek Edizioni c’è un secondo romanzo, proposto, questa volta, da Elisabetta Rasy.

La polivalente esclamazione “È tardi!” segna l’inizio e la fine della narrazione di sette tempi di attesa di altrettante eroine del teatro lirico. Seguendo l’intreccio di piani che il narratore costituisce (memoir intimo, reinterpretazione precisa e appassionata dei libretti d’opera, storia del teatro lirico) sulla scena compaiono Violetta Valery, coraggiosa Traviata in attesa della redenzione di Alfredo Germont; Madama Butterfly, “rinnegata e felice” nella devozione assoluta a un distratto ufficiale della marina americana; la Contessa mozartiana, che attende il ritorno alla fedeltà coniugale di un marito fedifrago; Carmen, gitana e sigaraia, alla conquista mortale della libertà di amare chi e quando le aggrada; Elektra, spettrale invenzione straussiana dell’attesa di vendetta matricida; Lucia di Lammermoor, eroina manipolata nel suo amore segreto, che trova posto solo grazie alla pazzia assassina; Norma, la sacerdotessa che viola ogni regola nell’attesa di essere scoperta e sacrificata a causa dell’amore per un nemico. In queste storie l’attesa si trasforma in una tensione spasmodica di tutta l’esistenza a ritrovare e affermare la propria natura. L’attesa è sempre d’amore, infine dell’amore e della cura di se stessi, anche a costo della morte, dal prologo del libro fino agli incontri dell’epilogo, ai suoi applausi finali, in cui le storie delle eroine liriche e le vicende private del narratore s’intrecciano intorno a un unico filo: ogni attesa è la paura e il desiderio, del narratore come di tutti noi, che sia troppo tardi.

Ecco infine le motivazioni che Elisabetta Rasy ha indicato riguardo la candidatura di questo romanzo:

«Il libro È tardi (Wojtek) di Eduardo Savarese è un’opera davvero speciale: è insieme un ritratto da vicino di sette eroine della lirica (Traviata, Carmen e altre anche attraverso l’evocazione di celebri interpreti), una storia famigliare che si spinge fino alla seconda guerra mondiale, e soprattutto un romanzo di formazione in cui l’autore racconta la difficile scoperta e poi accettazione, anche grazie alla musica, della propria omosessualità.
È un libro scritto con una prosa viva e colloquiale ma straordinariamente limpida, che ci narra in modo semplice ma incisivo come l’arte e la vita possano essere felicemente intrecciate. Per queste ragioni lo presento con entusiasmo al Premio Strega.»

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