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Letteratura

“Acciaio”: l’adolescenza tra le siviere

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“Acciaio” è l’esordio narrativo della scrittrice biellese Silvia Avallone, pubblicato nel 2010 per Rizzoli. Non è una storia, ma una raccolta di biografie di vite dimenticate. Silvia Avallone racconta l’Italia operaia all’inizio degli anni 2000, attraverso gli occhi di adolescenti cresciute troppo in fretta.

La trama di “Acciaio”

Anna e Francesca sono due quattordicenni di Piombino, cresciute nei palazzoni di via Stalingrado. Si conoscono da sempre, hanno fatto tutto insieme, eppure sono così diverse. Anna guarda il mondo dai suoi occhi screziati di giallo, si passa una mano tra i capelli ricci pensando a un futuro da persona importante. Vuole fare il magistrato, la politica, l’ambasciatrice… Vuole essere ricordata. Francesca no. La ragazzina bionda, alta e slanciata, una bellezza limpida invischiata nell’acciaio fuso delle siviere, vuole essere ricordata solo da Anna. Sognano una vita diversa, l’una con l’altra, lontane da tutti… Magari all’Elba.

Il sogno dell’isola turistica, un american dream all’italiana, le accompagna in un’adolescenza fin troppo adulta. Anna e Francesca stanno cambiando, il loro corpo prende forme vertiginose, e nella loro purezza, saranno catapultate in un sistema di perversioni, violenza e corruzione, dal quale sarà difficile evadere. I ragazzi di via Stalingrado vivono vite difficili, precarie, si immischiano in giri criminali, si drogano, mettono al mondo figli che non vogliono e fanno finta di niente. Perché è questa la normalità di chi vive nell’acciaio.

“Non c’era il cielo. C’era una voliera. Le fiamme viola dei forni, i bracci delle gru, le tonnellate dei metalli imbragati ai becchi dei paranchi. La serie sterminata dei capannoni, delle officine, dei bunker. È un’ossessione autosufficiente. Le ciminiere, quelle attive e quelle spente. Sopra la sua testa crepitavano costanti: fiamme viola, rosse, nere. Giravano i bracci delle gru, gialle, verdi, tonnellate di metallo vorticavano come uccelli, nuvole gialle di carbonio, nere dalle bocche delle ciminiere. Si chiama ciclo continuo integrale. Alessio calpestava ortiche e resti di mattoni refrattari. Il metallo saturava il terreno e la sua pelle.”

Un intreccio di storie

La narrazione di “Acciaio” compie spesso deviazioni, alcune tendenti a problematiche sociali e di attualità, altre che riguardano la soggettività dei personaggi. Silvia Avallone, effettivamente, fa scendere in campo temi eterogenei e di natura apparentemente contrapposta, e quasi sempre li abbandona a metà. Credo possa essere un sentimento comune a tutti i lettori quello di voler sapere di più, a volte anche restando con l’amaro in bocca per una situazione lasciata in sospeso. Nonostante ciò, a mio parere, la superficialità con cui la Avallone manovra certi filoni all’interno della storia è perfettamente in linea con la mentalità delle protagoniste. La morte sul lavoro, la discriminazione, le dipendenze, la violenza domestica, la criminalità e molto altro, fanno solo da sfondo alle vicende di Anna e Francesca. Loro vivono per sé stesse, l’una per l’altra, tutto il resto è minuscolo e impercettibile. Il fumo delle ciminiere, il rumore della fabbrica Lucchini, gli uomini che si levano al mattino solo per domare il fiume in piena dell’acciaio fuso, sono solo pedine, oggetti di scena, non contano a nulla. Piombino è la scenografia davanti alla quale le due ragazze si esibiscono, vengono acclamate e invidiate, e dalla quale non vedono l’ora di fuggire.

“Dov’era finita? Dove finiscono le cose che perdi? Le scarpe da ginnastica sotto lo scafo della barca, nella spiaggia delle alghe. Anna chiuse gli occhi. Se si impegnava, poteva distinguerla la voce di Francesca che indica la boa laggiù, un puntino giallo oscillante, una meta microscopica ma per loro, nel 2001, immensa… Francesca che spicca il volo nell’acqua, infila la testa e riemerge gridando: «Dai, andiamo all’Elba!».”

Cosa mi ha lasciato “Acciaio”?

Sicuramente un velo di inquietudine. Le pagine sono scorse veloci, sature di immagini forti, quasi come se stessi guardando un film. È stato facile empatizzare con i personaggi, riuscendo ad immedesimarsi precisamente negli stati d’animo che li turbavano, o nei loro piccoli momenti di rara spensieratezza. Nonostante il romanzo sia pervaso da una persistente atmosfera d’angoscia, resta sempre acceso un barlume di speranza. Quella speranza tipica di due adolescenti, due amiche, che nonostante tutto, sognano una vita migliore. Dopo i capitoli di epilogo, che prendono una svolta inaspettata e cruda, il finale lascia prendere fiato al lettore deviando la narrazione in un ritorno pressappoco ciclico all’esordio. Anna e Francesca, come due rette parallele, riescono a percorrere insieme i binari della tanto auspicata normalità, mettendo così fine a una storia che, in un modo o nell’altro, può riguardarci tutti.

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