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Costume e Società

Voto unanime al Senato: la parità salariale è, finalmente, legge.

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Parità salariale

Dopo il sì della Camera, arriva il consenso unanime anche al Senato: il ddl sulla parità salariale è legge. Tra le misure che entreranno in vigore, anche l’obbligo per le aziende di certificare le politiche del personale. Ma la legge sulla parità salariale uomo-donna non basta: bisogna combattere la precarietà del lavoro.

Dal Senato finalmente la buona notizia: la parità salariale è Legge! Oggi l’Italia compie un grande passo per i diritti delle donne lavoratrici. Al lavoro perché la legge venga attuata al 100%! Siamo pari. E io sono solo felice”, così scrive su Twitter Chiara Gribaudo, responsabile Pd Missione Giovani e prima firmataria e relatrice della proposta sulla parità salariale annunciando il traguardo raggiunto in tempi record.

Un traguardo raggiunto in tempi record…

In meno di due settimane, infatti, il Ddl per le pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo, a partire dalla parità salariale, è passato sia alla Camera che al Senato, tutto in pochissimo tempo, come ha sottolineato la relatrice al Senato Valeria Fedeli.

Quest’ultima, per evitare che le tempistiche si allungassero (come invece continua ad accadere con il Ddl Zan contro le discriminazioni e le violenze legate all’omotransfobia e all’abilismo, approvato alla Camera nel novembre 2020 e che tornerà a Palazzo Madama oggi 27 ottobre), aveva aveva chiesto l’assenso da parte di tutti i gruppi a non presentare emendamenti. E così è stato.

Che sia accaduto con il provvedimento sulla parità salariale tra donne e uomini dimostra l’urgenza e la concretezza che questo Parlamento, d’accordo tutte le forze politiche, ha voluto riconoscere all’incrocio tra i due assi fondamentali per l’uscita dalla crisi pandemica e per la crescita del Paese: lavoro e parità di genere”, ha aggiunto la senatrice Fedeli.

Una battaglia di inclusione e civiltà. La legge nata da un testo unificato a cui si è arrivati lavorando a diverse proposte delle parti politiche, pone tra i suoi obiettivi quello di colmare il gender pay gap (divario salariale) presente nel nostro Paese. Sulla base dell’ultimo report del World Economic Forum, infatti, l’Italia si colloca ancora al 76° posto su 153 Paesi della classifica mondiale.

“Attuiamo un fondamentale principio di trasparenza”,  ha spiegato la relatrice Chiara Gribaudo subito dopo l’approvazione alla Camera. “Le aziende sopra i 50 dipendenti dovranno compilare un rapporto sulla situazione del personale che conterrà molti indicatori. L’elenco delle aziende che trasmetteranno il rapporto, e quello di chi non lo trasmetterà, sarà pubblico, e i dati saranno consultabili dai lavoratori, dai sindacati, dagli ispettori del lavoro, dalle consigliere di parità. Una presentazione mancata o con informazioni false può portare alla revoca degli sgravi contributivi e a sanzioni da 1000 a 5000 euro.”

Questa però non è la prima volta…

Eppure non è la prima volta che vengono annunciate misure simili: dalla legge 903 del 1977 alla 121 del 1991, passando per il codice delle pari opportunità, la parità di trattamento tra uomo e donna è già stata proclamata svariate volte. Già la Costituzione garantisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore“, ma per l’appunto, se il principio è affermato da decenni, non è detto che sia attuato, specie in un contesto che sembra spostarsi sempre più dalla profondità nell’analisi dei rapporti di forza a forme di tutela sempre più apparenti.

Il ddl approvato al Senato è l’ennesimo caso di proclamazione di un principio, senza una valutazione del problema di fondo, ossia la precarizzazione del lavoro.

Il rischio del “pink washing

Tornando alle misure per la parità di genere, le norme antidiscriminatorie sono senz’altro un utile strumento di argine alle disuguaglianze tra uomini e donne.

Sicuramente monitoraggi ed enti sono importanti per comprendere il fenomeno della disparità, salariale e di trattamento, tra i generi. Il problema però è il rischio che queste proposte si trasformino in un comodo pink washing, per l’appunto votato all’unanimità, senza che cambi la situazione, per le donne e per gli uomini.

Allora è certamente necessario parlare di disparità di genere, da un punto di vista salariale e organizzativo. Ma per comprendere il problema e approntare soluzioni efficaci bisognerebbe tornare sempre al tema della rimozione degli ostacoli economici e sociali che impediscono l’uguaglianza sostanziale.

Lo strumento principale che la nostra Costituzione prevede per la rimozione degli ostacoli socio-economici è il lavoro. Lavoro non inteso come un qualunque rapporto di impiego, ma come un diritto, una libertà e un dovere.

Quello promesso dalla Costituzione è un lavoro dignitoso, con una retribuzione proporzionata e sufficiente, con tutele sociali irrinunciabili. In un contesto di mercato in cui la libertà di impresa, pur garantita dall’articolo 41, non può essere in contrasto con l’utilità sociale.

Se la parità di genere è utilità sociale, se la dignità nel lavoro è utilità sociale, allora dovremmo pretenderle. Lo Stato dovrebbe essere garante dei diritti ed esigerne il rispetto anche da parte delle imprese.

Come scrive la stessa Laura Boldrini in un post su Facebook “C’è quindi ancora tanto da fare per garantire pari accesso al mercato occupazionale. La strada è lunga ma noi la percorreremo tutta!

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