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Letteratura

Nuove proposte per lo Strega 2022

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Come ogni martedì anche oggi sono arrivate le proposte degli “amici della domenica” per il Premio Strega 2022. Scopriamo insieme i titoli proposti oggi.

Olivia Denaro di Viola Ardone

Proposto da Concita de Gregorio e pubblicato da Einaudi, questa è la trama di “Olivia Denaro” di Viola Ardone:

È il 1960, Oliva Denaro ha quindici anni, abita in un paesino della Sicilia e fin da piccola sa – glielo ripete ossessivamente la madre – che «la femmina è una brocca, chi la rompe se la piglia». Le piace studiare e imparare parole difficili, correre «a scattafiato», copiare di nascosto su un quaderno i volti delle stelle del cinema (anche se i film non può andare a vederli, perché «fanno venire i grilli per la testa»), cercare le lumache con il padre, tirare pietre con la fionda a chi schernisce il suo amico Saro. Non le piace invece l’idea di avere «il marchese», perché da quel momento in poi queste cose non potrà piú farle, e dovrà difendersi dai maschi per arrivare intatta al matrimonio. Quando il tacito sistema di oppressione femminile in cui vive la costringe ad accettare un abuso, Oliva si ribella e oppone il proprio diritto di scelta, pagando il prezzo di quel no. Viola Ardone sa trasformare magnificamente la Storia in storia raccontando le contraddizioni dell’amore, tra padri e figlie, tra madri e figlie, e l’ambiguità del desiderio, che lusinga e spaventa, soprattutto se è imposto con la forza. La sua scrittura scandaglia la violenza dei ruoli sociali, che riguarda tutti, uomini compresi. Se Oliva Denaro è un personaggio indimenticabile, quel suo padre silenzioso, che la lascia decidere, con tutto lo smarrimento che dover decidere implica per lei, è una delle figure maschili piú toccanti della recente narrativa italiana.

Queste le motivazioni con cui Concita de Gregorio ha motivato la sua proposta:

«Per la potenza della voce della protagonista, che ci parla da un tempo e da un luogo in cui la parola libertà, per una giovane donna di sedici anni, era da inventare. Per la forza del racconto corale di un paese di Sicilia che custodisce la matrice di caratteri e dinamiche certamente arcaici, ma tuttora presenti nel comune sentire e capaci di retroilluminare l’origine del nostro senso comune. Per il pudore, la riconoscenza e la grazia con cui rende omaggio alla storia di una donna realmente esistita, celebre e vivente, che pur essendo fondamento e simbolo di emancipazione ha scelto di condurre il resto della sua esistenza nel riserbo e nella discrezione. Per il rispetto che le porta. Per la forza letteraria del romanzo, per l’assenza di retorica edificante, per la freschezza e la precisione dello sguardo. Per la capacità di orchestrare dialoghi e silenzi, di dare corpo al pensiero inespresso. Un romanzo che non si può non amare, non si può non portare Oliva Denaro per sempre con sé

L’alta fantasia di Pupi Avati

L’alta fantasia” di Pupi Avati è stato pubblicato da Solferino e proposto da Paolo di Paolo. Questa la trama del testo:

Ravenna, 1321: esiliato e misconosciuto, Dante Alighieri esala l’ultimo respiro. Nel convento delle clarisse di Santo Stefano degli Ulivi, l’albero di mele selvatiche che le suore chiamano «l’albero del Paradiso » smette misteriosamente di dare frutti. Trent’anni dopo Giovanni Boccaccio, studioso appassionato dell’opera dantesca, riceve un incarico singolare: andare in quel convento, dove risiede la figlia di Dante, divenuta monaca con il nome di suor Beatrice, e consegnarle un risarcimento in denaro per l’esilio ingiustamente subito da suo padre. Sarà un viaggio di riparazione e di scoperta, ma anche di fatica e pericoli, non ultima l’accoglienza non sempre entusiastica ricevuta dai conventi dove l’opera del Sommo è ancora vietata, in odore di eresia. E per Boccaccio sarà l’occasione di riandare ai momenti più importanti della vita dell’Alighieri, le sensibilità di bambino e l’incontro con Beatrice, la politica e i tradimenti, l’amarezza della cacciata da Firenze, il tormento e l’estasi della scrittura. Trovando conferma, lui, scrittore, di quanto il dolore promuova l’essere umano a una più alta conoscenza. Pupi Avati ci consegna con il suo nuovo romanzo l’opera di tre vite: l’incontro inaspettato attraverso i secoli tra un regista e scrittore e due maestri della cultura italiana. Un racconto di avventure, uno sguardo partecipe e nuovo su Dante, la ricostruzione di un Medioevo vero, sporco, luminoso e umano: una prova d’artista intessuta di passione e di poesia.

Queste invece le ragioni addotte da Paolo di Paolo alla sua proposta:

«Non è un gesto semplice quello che consente a una realtà storica di riacquistare visibilità e tangibilità. Occorre fare in modo che l’immaginazione si incarni. Un lavoro per artisti – capaci, per esempio, di far tornare a vivere “una inclemente tempesta” che segna la fine dell’estate del 1321. Una pioggia “cattiva” che batte sulle strade di Ravenna, nel giorno in cui muore Dante Alighieri. Nessuno può riportarci lì, se non la macchina del tempo allestita da un narratore. La pioggia si ferma per un istante. Il racconto può cominciare: e Pupi Avati ne fa coincidere la traiettoria con quella percorsa da Giovanni Boccaccio. L’autore del Decameron è incaricato di raggiungere la figlia di Dante, fattasi monaca, per consegnarle un risarcimento, una somma di denaro con cui Firenze prova a farsi perdonare per l’esilio subito dal poeta. Avati ricostruisce il viaggio tappa per tappa, emozione per emozione, facendoci misurare la portata simbolica e il peso emotivo. Il viaggio di Boccaccio è un atto di restituzione non solo concreta, ma ideale: è il cammino di un uomo ammirato verso la radice di quella ammirazione, è il tentativo di cogliere, a posteriori, il segreto del genio altrui, di darsi risposte sul mistero della creatività. È, in fondo, il viaggio che, in settecento anni, abbiamo fatto anche noi – studenti, studiosi, lettori appassionati, esposti al bagliore di un talento senza misura.
La colonna sonora, esplicitata dall’autore, del libro si muove tra Brahms e le grandi passioni jazzistiche di Avati, ed è il contrappunto speciale di un romanzo che sorprende per la grazia e la levità, per come torna su un tema radicale della filmografia del regista (penso, per esempio, a Ma quando arrivano le ragazze?) – il mistero della creatività, per l’appunto – da una via diversa e originale. Documentatissimo ma senza che mai si avverta il peso delle fonti, L’alta fantasia è un libro che accorcia una distanza di secoli, fino a farci accomodare nella stanza in cui Boccaccio fa a suor Beatrice, la figlia di Dante, la domanda che tutti abbiamo sulla punta della lingua. La risposta resta segreta, ma come l’autore del Decameron anche noi sentiamo di avere sfiorato, grazie alla potenza immaginativa di Avati, la carne della carne di Dante.
Candido con emozione L’alta fantasia al Premio Strega 2022, grato a un maestro del cinema che qui rivela fino in fondo la sua commovente passione per la grande letteratura.»

Elsa di Angela Bubba

Elsa” di Angela Bubba è stato presentato da Laura Pugno e pubblicato da Ponte alle Grazie.

Grande scrittrice, autrice di alcuni dei maggiori romanzi del Novecento europeo, protagonista della nostra storia culturale, moglie di Alberto Moravia, amica di Pasolini: chi è stata davvero Elsa Morante? Per la prima volta a parlare è proprio lei, Elsa, nel cui nome si apre e si chiude il romanzo biografico di Angela Bubba. La vita di Elsa – dall’infanzia a Testaccio fino agli ultimi anni segnati dalla malattia – si snoda fra queste pagine nel segno della spada, quella che serve a ingaggiare tremende schermaglie con gli odiati-amati oggetti del desiderio: la madre, il primo e più infelice degli amori, la coppia di opposti Moravia-Visconti, l’amico nemico Pasolini… Ma soprattutto è la spada anarchica della fantasia che la scrittrice impugna saldamente mentre insegue senza sosta i propri personaggi, i quali sembrano a loro volta tenerla prigioniera in un gioco che fonde inestricabilmente vita e letteratura. Un ritratto profondo, accurato, vivido, di quella che appare ormai a molti la maggiore scrittrice italiana di ogni tempo.

Laura Pugno ha rilasciato, riguardo la sua proposta, queste dichiarazioni:

In Elsa, vita in romanzo o romanzo della vita di Elsa Morante, concordemente riconosciuta come una delle maggiori autrici italiane del Novecento e oltre, in Italia e all’estero, e vincitrice del Premio Strega 1957, Angela Bubba si misura carne a carne con un modello letterario di spaventosa potenza e ne dischiude la densità metallica, tenera disperata e stridente, in limpidezza teatrale.
Di scena in scena, di decennio in decennio in questo corposo e leggibilissimo romanzo di più di quattrocento pagine, sorretto dal lungo studio e lungo amore di una giovane scrittrice che è anche un’italianista, Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti, i protagonisti della società letteraria e culturale del tempo ci appaiono – ed è questa la parola, perché di apparizioni si tratta – in situazione, in flash, in impressione improvvisa, come corpi in movimento che lasciano una scia luminosa, permettendoci di cogliere ancora e sempre il loro bagliore da lontananze di tempi e spazi siderali, ed è un bagliore vivo. Se la letteratura è anche ambizione, qui la scommessa è stata ambiziosa (non un’opera-mondo, ma un mondo-opera), ed è stata vinta. Impresa non facile. E se la letteratura è esplorazione (per ricorrere ancora una volta, l’ultima forse, a metafore che abbiamo smesso di pensare e percepire come tali, ma che restano tali) qui il romanzo non si affida solo alla capacità di ricognizione dei suoi scout, dei suoi drappelli oltre le linee, nemiche o forse solo sconosciute. Piuttosto da quei drappelli ha già ricevuto i dispacci ottenuti a caro prezzo, ne ha preso atto, ed è pronto a muovere in forze, con tutte le sue forze. Combatte le battaglie che ha sempre combattuto, ne ha vinte già molte altre. Forse, all’orizzonte, intanto, si prospetta un tipo di guerra completamente nuovo.

Gli Iperborei di Pietro Castellitto

Bompiani ha pubblicato il primo romanzo di Pietro Castellitto, “Gli iperborei”,nominato allo Strega da Teresa Ciabatti. Questa la trama:

Sono stati il leone, la balena, il cerbiatto, protagonisti di una recita di fine anno nella quale il canguro era scomparso e i suoi amici dovevano ritrovarlo. Adesso hanno quasi trent’anni e vagano nei meandri di una vita dorata: mangiano pesce crudo e patanegra, bevono vini pregiati, fumano essenze, assumono droghe come da bambini consumavano caramelle, navigano, festeggiano, inseguono le arti, tentano la politica. Hanno corpi scolpiti e vestiti costosi, sono figli di primari e giornalisti celebri, di miliardari dai patrimoni solidi e antichi o recenti e sospetti, ma sono anche gli eredi dei ribelli che hanno caratterizzato stagioni gloriose e disperate della storia: coloro che, prosperando nella pace, hanno invocato la guerra, che amando i genitori ne hanno patito le ipocrisie, smascherato le contraddizioni e sognato l’annientamento. Poldo Biancheri, “Ciccio” Tapia, Guenda Pech, Stella Marraffa, Aldo: hanno tutto ma si sentono in trappola, e questa è la loro estate, quella in cui vogliono uscire dal cerchio. È Poldo la voce narrante della loro ebbrezza, della loro sfida: racconta come se vedesse tutto già da una distanza, registrando ogni cosa con fermezza ma senza nascondere la nostalgia per un’infanzia ancora vicina, la rabbia verso padri che si sono presi tutto non lasciando che briciole, la tenerezza per i fratelli e i coetanei capaci di farsi del male per protesta o per amore. Poldo ha portato in barca con sé L’Anticristo, in cui Nietzsche sembra parlare di loro: “Guardiamoci in viso: noi siamo Iperborei… Abbiamo trovato l’uscita per interi millenni di labirinto. Oltre il nord, oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita, la nostra felicità…”

Queste le ragioni della proposta di Teresa Ciabatti:

«Quanto duri la giovinezza è la domanda sottesa a tutto il romanzo. Pietro Castellitto riesce a definire questo tempo nello spazio di una generazione di modo che lo sguardo in presa diretta contraddica il luogo comune secondo il quale l’essere ragazzi è trasversale, uguale per tutti. Uguale e felice. Gli iperboreitestimonia che ogni epoca ha la sua età giovanile, e qui, per i quasi trentenni protagonisti, questa età coincide con la paura della fuggevolezza, col morire prima di essersi compiuti.
Tra il passato più remoto che è l’infanzia e il futuro prossimo – il trentesimo anno, come ha detto Ingeborg Bachmann – che incombe, ovvero la vecchiaia, il romanzo risponde: passa un istante. La giovinezza dura un istante.
Con una voce unica e originale, Castellitto smaschera lo scherzo dell’età senza mai tirarsene fuori. La sua è un’implosione. È la bomba che la figlia dello Svedese mette all’ufficio postale, togliendo la vita a una persona e insieme distruggendo la sua e quella del padre. Includersi nella rovina è il gesto letterario degli Iperborei.
Spudorato e pieno di grazia, scapestrato e gentile, questo romanzo fotografa l’oggi con uno stile maturo, ora anarchico, ora conservatore, sempre intimamente innovativo.
La velocità, quasi distratta, dei passaggi cruciali, l’inversione del rapporto causa effetto, la drammatizzazione quasi psichedelica dell’inezia, l’anestesia del dolore.
La scrittura di Castellitto contiene anche altro: la prova che non è necessario uccidere i padri, ma che – inglobandoli, superandoli, persino tornando a loro – si compie il passaggio. A differenza dei barboncini, i ragazzi “che covano rivoluzioni già covate”, gli iperborei rischiano per una rivoluzione dove – ecco l’inaspettato/l’impensato – padri e figli possono abitare, seppur diversamente, lo stesso frangente. In questa scoperta, in questa tenerezza mai esibita, il romanzo è sovversivo. Nella filiazione prima di tutto letteraria che tiene conto dell’eredità di stile e immaginario, incorporandola o rovesciandola, senza mai disintegrarla.
Un romanzo destinato a restare non solo per il valore in sé, ma per il rapporto che stabilisce col presente, al pari di quello stabilito da Meno di zero con gli anni Ottanta, e da Il giovane Holden con gli anni Cinquanta. In una contaminazione continua tra infanzia e età adulta, innocenza e malizia, durante un tempo violentissimo e rapido che rallenta su riflessioni in apparenza di poco conto.
Il “dove vanno le anatre d’inverno?” di Salinger qui si moltiplica, si fa dubbio anche su sé stessi: “Poldo… Ma quanti anni abbiamo noi?”.
Per tutte queste ragioni ho deciso di presentare Gli iperborei di Pietro Castellitto alla LXXVI edizione del Premio Strega.»

Il Confine di Silvia Cossu

Il Confine”, romanzo pubblicato da Neo edizioni e scritto da Silvia Cossu, è stato proposto allo Strega da Renato Minore. Qui di seguito la trama:

Una scrittrice mette al servizio degli altri il proprio talento. Scrive biografie per personaggi caduti in malora che vogliono raccontare la propria esistenza sotto una luce diversa. «È vero che sfrutto la vanità altrui, ma il risultato produce un conforto duraturo: la vanità è il motore morale del nostro tempo, la sua etica privata.» Viene ingaggiata da un uomo al culmine dell’ascesa sociale e professionale, un luminare che ha rivoluzionato il mondo della psichiatria e che, a differenza dei soliti committenti, non le chiede di magnificare la storia della sua vita, quanto di raccontare la verità che l’attraversa. Il Confine è il corpo a corpo di una donna nell’ombra con un uomo di fama internazionale la cui figura, incontro dopo incontro, diventa sempre più inafferrabile; è la discesa in un mondo rarefatto e conturbante in cui le certezze si sgretolano; un disegno dove le identità e le fragilità si sovrappongono, quasi a sostituirsi. “Silvia Cossu punta in alto, con i tempi e i modi di un racconto che, come un piccolo giallo dell’anima, con grande sapienza costruttiva, avvicina ad una più profonda domanda di senso. Quasi un viaggio iniziatico” (Renato Minore)

Renato Minore ha spiegato i motivi della sua proposta:

«“Entrambi ci facciamo pagare promettendo un miraggio. Vediamo fumo, lui lo chiama ‘cura’, io ‘senso’.” Lui è un famoso psichiatra che chiede una sua biografia a chi per professione le scrive.  Montando questa storia con grande sapienza costruttiva, Silvia Cossu riesce a muoversi sul “confine” dove l’esperienza dello psichiatra e della sua biografa si specchiano, si mescolano, si confondono tra rivelazioni colpi di scena e lampi onirici.
La quiete di una storia biografica in cui si cerca la ragione, il modo, il senso di una cura che si trasforma in una nuova cura, davvero inattesa quanto necessaria grazie all’esperienza che la protagonista si trova a patire nel confronto con la vita dello psichiatra.  Che non è solo un ciarlatano come tanti guaritori d’anima nella grancassa dei media, ma anche l’abile giocoliere di una rappresentazione che, nel suo vuoto, riesce incredibilmente a far centro.
E fa centro Il confine (Neo edizioni), con la lama di una scrittura appassionata e “fredda” nello stesso tempo, tra messe in scena, simulazioni e dissimulazioni di un io davvero mobile, precario, sempre bisognoso di rinforzi e conforti, maschere e travestimenti vari, nella lettura coinvolta e complice che può assicurare.»

Lei che non tocca mai terra di Andrea Donaera

Lei che non tocca mai terra”, scritto da Andrea Donaera e pubblicato da NN Editore, è stato proposto per il Premio Strega da Daniele Mencarelli. 

Miriam è in coma dopo un incidente. Andrea la conosce appena ma si è innamorato perdutamente di lei, e ora le siede accanto e le parla, tutti i giorni, perché riesce a sentire la sua voce. Le loro parole si incontrano in un limbo oscuro, dove Miriam ricostruisce i suoi ricordi e Andrea cerca di tenerla ancorata alla vita. Attorno al letto della ragazza si muovono altre figure, che attendono il suo risveglio. Ci sono Mara e Lucio, i genitori, già segnati da una tragedia che li ha allontanati l’uno dall’altra. C’è papa Nanni, il venerato santone esorcista, che vede in Andrea un allievo e in Miriam i segni del demonio. E infine c’è Gabry, la migliore amica di Miriam, che da Bologna le manda lunghi messaggi. In sette giorni, i racconti dei personaggi si alternano a svelare una trama di amore e morte, di salvezza e destino, dove la ragione sfuma nell’inconscio finché la realtà non deflagra e riprende il sopravvento.

Mencarelli spiega la sua proposta con queste parole:

«Lontano dai canoni che vorrebbero la letteratura mesta forma d’intrattenimento, Lei che non tocca mai terra di Andrea Donaera entra nelle viscere di un sud arcaico e violento, dove bene e male camminano fianco a fianco e i valori sono spesso ribaltati nella pratica della realtà. Miriam, giovanissima, ha avuto un incidente che l’ha ridotta in coma, su di lei veglia Andrea, suo coetaneo, che cerca di difenderla e di difendersi dalle insidie di familiari e parenti, intrecciati in una serie di relazioni tossiche, tutti malati della stessa malattia: la fine dell’amore, peggiore di ogni morte.
Il sud di Donaera è il sud di ogni mondo su questa terra, gotico e bestemmiante, dove tutti, a partire da Dio, si negano all’uomo che brama di essere salvato, da sé stesso e da tutti i falsi profeti. Donaera è un narratore lirico come pochi altri in circolazione e questo suo viaggio risplende di luce propria.»

Il profumo della libertà di Giovanna Giordano

Pubblicato da Mondadori, “Il profumo della libertà” di Giovanna Giordano è stato proposto per il premio Strega da Antonella Cilento.

Un giovane eroe gentile viaggia su una nave. Si chiama Antonio Grillo e ha vent’anni quando nel 1923 lascia la Sicilia per gli Stati Uniti. Ama Gesso, il suo paese natale, ma il richiamo dell’ignoto è troppo forte, impellente mettere le ali alla propria libertà. In valigia porta pezzi della sua isola: la pietra pomice per la leggerezza, lo zolfo per l’energia e una federa con ricamata la scritta “siate sempre felici”. Molti sono i miraggi e gli incontri nel turbine del viaggio di mare: Aurora la cavalla bella e saggia, due oche magiche, un gorilla in gabbia, una scimmia allegra e balene blu in foga d’amore. E poi gli amici: De Gubernatis che ama la calma sopra ogni cosa, Elide la donna vestita di luce o Lucilla archeologa negli abissi. Ovunque Antonio cerca e trova la saggezza, più forte degli eserciti che marciano sul mondo, e prova tenerezza verso uomini e animali, da sempre leali compagni degli eroi. Fra vulcani che affiorano dalle profondità dell’oceano, piratesse e brigantesse, una donna gigante amata da un certo Polifemo e molte isole e lune incrociate per mare, pagina dopo pagina l’eroe gentile affila le armi per affrontare la sua giovane esistenza. “Avrò vent’anni per sempre?” si domanda. Forse sì, se gli riesce di mantenere la sua candida visione. Giovanna Giordano ci racconta una storia che ha l’impianto e il passo dei grandi racconti di gesta e l’incanto di affreschi fiabeschi. Un romanzo che è una navicella lanciata nello spazio di una stellata libertà.

Questo il commento con cui Antonella Cilento ha accompagnato la sua proposta:

«Il romanzo di Giovanna Giordano è in autentica controtendenza: merita segnalazione la sua opera intrisa di un’atmosfera classica e insieme fantastica, che mette insieme la vocazione dei grandi narratori europei, da Karen Blixen a Vitaliano Brancati, raccontando un lungo viaggio eroico (e comico, e sentimentale, e onirico) da un luogo ignoto e secondario della Sicilia, il piccolo villaggio di Gesso, arroccato sopra Messina, all’America.
Il romanzo di Giovanna Giordano è una moderna Odissea e il protagonista, Antonio Grillo, novello Ulisse, ne è osteggiatissimo protagonista, poiché non a casa si deve tornare, come in Omero, ma da casa si deve trovare la forza di partire.  E innumerevoli sono gli inganni che la terra maliosa e la famiglia gelosa tessono per impedire il viaggio, nutrendo e avvelenando il protagonista che ha in casa sia Circe che i Lotofagi.
Giovanna Giordano tesse una lingua di richiami e ripetizioni, seminata di boe di parole, come un’antica cantastorie, un gesto che in tempi cinici e ciechi sembra ingenuo e invece risveglia le forze più antiche del narrare, come in Le mille e una notte. Cosa ci dà la forza per viaggiare nel mondo, sembra chiedersi Giovanna Giordano, se non le profonde radici cui apparteniamo?
Erede di molti peripli mediterranei e di epiche narrazioni dello Stretto compiuti da altri scrittori siciliani, su tutti Stefano D’Arrigo con Horcynus Horca, Il profumo della libertà innova il modello con voce femminile di autentica incantatrice.»

Divorzio di velluto, di Jana Karsaiova

Divorzio di velluto”, scritto da Jana Karsaiova ed edito da Feltrinelli, è stato presentato allo Strega dal giornalista

Come si sopravvive allo strappo, alla perdita delle radici? Cosa resta, come ci si inventa di nuovo? Katarína torna da Praga a Bratislava per trascorrere il Natale insieme alla famiglia. Alle vecchie incomprensioni con la madre, si aggiunge la difficoltà di giustificare l’assenza del marito Eugen. Ma in quei pochi giorni ritrova anche le vecchie compagne di università, soprattutto Viera, che si è trasferita in Italia grazie a una borsa di studio e torna sempre più malvolentieri in Slovacchia. Le due amiche si riavvicinano, si raccontano l’un l’altra gli strappi, le ferite – Viera con Barbara, che era stata la loro insegnante di italiano, Katarína con Eugen, che l’ha abbandonata due mesi prima con un biglietto sul tavolo della cucina. Katarína ripercorre il rapporto con lui, dal primo incontro al matrimonio forse troppo precoce, con le tante difficoltà di integrarsi a Praga, fino al dolore, di cui ancora non riesce a parlare. E tra i ricordi emergono frammenti della vita a Bratislava sotto il governo comunista: l’abolizione delle festività cattoliche, la censura, le code per la carne e per qualsiasi cosa. Con “divorzio di velluto” si intende la separazione tra Slovacchia e Repubblica Ceca, che nel romanzo riverbera quelle tra Katarína e il marito Eugen, tra Viera e un paese per lei troppo stretto… È una storia di assenze che pesano, di tradimenti, di desideri temuti e mai pronunciati, di strappi che chiedono nuove risorse per essere ricomposti, di sradicamento e di rinascita – una ricerca di sé della protagonista e del suo paese, entrambi orfani di un passato solido

Gad Lerner ha così motivato la sua proposta:

«Suggerisco alla giuria del Premio Strega di far suo Divorzio di velluto di Jana Karšaiová perché vi troverà inscritto il fascino del nuovo romanzo europeo. O, se preferite, la nuova Europa declinata in letteratura italiana da una scrittrice esordiente slovacca che, da autodidatta, grazie a vent’anni di studio, nella nostra lingua ha trovato il mezzo più adatto a esprimere mirabilmente la sua condizione esistenziale.
Un’adolescenza vissuta nel grigiore socialista della Cecoslovacchia che il 1° gennaio 1993 si spezzerà in due, dopo aver visto cadere la cortina di ferro che da noi la separava. Non solo questo è il Divorzio di velluto. È la separazione dolorosa ma necessaria dalle proprie radici, la scelta di una libertà di esistere, di amare, di parlare anche in modo diverso rispetto a quanto sembra sancito dai confini della propria nascita. Le belle protagoniste, Katarìna, Viera, Dora, nel loro passaggio alla gioventù, nelle trame sentimentali, nei conflitti generazionali, saranno per chi legge una rivelazione.
Carpa e sushi, palacinky e discoteche, in un quadrilatero romanzesco che rende vicinissime Bratislava e Praga con Verona e Bologna. Mentre sullo sfondo restano, almeno per ora, Londra e Washington. Vicenda d’Europa al femminile che la lingua italiana superbamente acquisita, e a tratti rivitalizzata, da Jana Karšaiová rende intima, universale, sorprendente.»

Quel maledetto Vronskij di Claudio Piersanti

Pubblicato da Rizzoli, il romanzo di Claudio Piersanti, “Quel maledetto Vronskij”, è stato nominato allo Strega da Renata Colorni.

“Perdonami, sono tanto stanca. Non mi cercare.” Solo questo lascia scritto Giulia, prima di scomparire nel nulla. E suo marito Giovanni, nella casa improvvisamente vuota, si sente un naufrago. Il loro è un amore fatto di cose minime: la colazione al mattino, con le fette imburrate e la marmellata; un bacio volante prima di andare al lavoro e un altro più lungo la sera, quando lui torna dalla tipografia con le dita sporche d’inchiostro; abbracciarsi in giardino, tra le rose che lei ha potato con cura. Dopo una vita insieme, non hanno ancora perso la voglia di farsi felici l’un l’altra. O almeno, così credeva lui.
Adesso Giovanni, in cerca di risposte, guarda tra i libri di Giulia e dagli scaffali pesca il più voluminoso: Anna Karenina. Comincia a leggere. E si convince che sua moglie abbia trovato un altro uomo, un amante focoso, un maledetto Vronskij. Geloso e amareggiato, si chiude in tipografia, deciso a creare una copia unica del capolavoro di Tolstoj: carta pregiata, copertina in pelle, nella speranza, un giorno, di farne il suo ultimo pegno d’amore per Giulia.
Ma la vita non è un romanzo, procede per strappi lievi e imprevedibili. Quando il mistero della scomparsa si svela, Giovanni capisce che c’è sempre qualcosa che ci sfugge, e tutto ciò che possiamo fare è smettere di averne paura.

Queste le ragioni che hanno portato Renata Colorni alla proposta:

«Non desta stupore che la pubblicazione presso Rizzoli dell’ultimo romanzo di Claudio Piersanti  sia stata salutata con unanime consenso da parte  della critica e del pubblico più avvertito, che  hanno  subito sottolineato con calore  le indubitabili e già ben note qualità letterarie di uno degli autori più importanti della nostra narrativa, voce tanto schiva e inapparente – che rammenta la nobile ricerca letteraria di Romano Bilenchi – quanto autorevole e originale fin da quando, nel 1997, il suo libro Luisa e il silenzio, ottenne l’ambito Premio Viareggio.
Ebbene, anche qui, anche in questo libro che ha un titolo enigmatico e lievemente sfottente; anche in questa storia di un amore coniugale che né i decenni trascorsi dalla coppia in unità indissolubile né il modesto tran tran di una esistenza piccolo borghese non immune da frustrazioni hanno minimamente scalfito perché quell’amore che definisce e lega i coniugi – lui è un bravissimo tipografo che per l’avvento delle nuove tecnologie ha perso il lavoro, lei una bella segretaria appassionata di giardinaggio – reca in sé la freschezza e il profumo delle cose indistruttibili ed eterne; anche nel racconto pacato di quotidiane abitudini e tenerezze di coppia che tutt’a un tratto vengono interrotte e lacerate dall’improvvisa sparizione di Giulia che provoca in Giovanni angoscioso spaesamento e paura, senso di perdita e di morte imminente;  anche in questo libro, insomma, così breve e strano, a tratti improbabile per chi non ha dimestichezza con i puri  di cuore, una specie di favola dolce e sinistra attraversata da cima a fondo da un brivido allarmante, Claudio Piersanti dà senso e spazio al mistero del silenzio e della solitudine, dimensioni fondative dei rapporti umani. Tutto questo grazie alla raffinatezza del suo intuito psicologico e alle risorse stilistiche innate della sua scrittura, che derivano da una lingua che ha la limpidezza del cristallo e da una straordinaria naturalezza e versatilità espressiva.»

Niente di vero di Veronica Raimo

Pubblicato da Einaudi e firmato da Veronica Raimo, “Niente di Vero” è stato candidato da Domenico Procacci. 

La lingua batte dove il dente duole, e il dente che duole alla fin fine è sempre lo stesso. L’unica rivoluzione possibile è smettere di piangerci su. In questo romanzo esilarante e feroce, Veronica Raimo apre una strada nuova. Racconta del sesso, dei legami, delle perdite, del diventare grandi, e nella sua voce buffa, caustica, disincantata esplode il ritratto finalmente sincero e libero di una giovane donna di oggi. “Niente di vero” è la scommessa riuscita, rarissima, di curare le ferite ridendo. «All’inizio c’è la famiglia. Veronica Raimo racconta che, specialmente se si è figlie, quell’inizio combacia con la fine» (Domenico Starnone). «Leggere questo romanzo è una festa. Ma molte pagine sono ferite da medusa: bruciano alla distanza» (Claudia Durastanti). Prendete lo spirito dissacrante che trasforma nevrosi, sesso e disastri famigliari in commedia, da Fleabag al Lamento di Portnoy, aggiungete l’uso spietato che Annie Ernaux fa dei ricordi: avrete la voce di una scrittrice che in Italia ancora non c’era. Veronica Raimo sabota dall’interno il romanzo di formazione. Il suo racconto procede in modo libero, seminando sassolini indimenticabili sulla strada. All’origine ci sono una madre onnipresente che riconosce come unico principio morale la propria ansia; un padre pieno di ossessioni igieniche e architettoniche che condanna i figli a fare presto i conti con la noia; un fratello genio precoce, centro di tutte le attenzioni. Circondata da questa congrega di famigliari difettosi, Veronica scopre l’impostura per inventare se stessa. Se la memoria è una sabotatrice sopraffina e la scrittura, come il ricordo, rischia di falsare allegramente la tua identità, allora il comico è una precisa scelta letteraria, il grimaldello per aprire all’indicibile. In questa storia all’apparenza intima, c’è il racconto precisissimo di certi cortocircuiti emotivi, di quell’energia paralizzante che può essere la famiglia, dell’impresa sempre incerta che è il diventare donna. Con una prosa nervosa, pungente, dall’intelligenza sempre inquieta, Veronica Raimo ci regala un monologo ustionante. «Veronica Raimo è l’unica che mi ha fatto ridere ad alta voce con un testo scritto in prosa da quando ero adolescente» (Zerocalcare).

Le ragioni per cui Domenico Procacci ha proposto questo romanzo sono le seguenti:

«Sono un Amico della domenica da diversi anni ma è la prima volta che decido di presentare un romanzo al Premio Strega. Lo faccio perché me ne sono innamorato prima da lettore e poi da produttore. Veronica Raimo ha un talento prezioso, scrive di cose serie, profonde, talvolta sconcertanti, con uno stile ironico e brillante. Niente di vero è uno spaccato tagliente di una famiglia italiana che ci somiglia, in cui la voce narrante smonta continuamente gli aspetti più canonici dello stare insieme per diritto di sangue, così come demolisce ogni retorica consolatoria, con una scrittura libera, spudorata e irresistibile. I personaggi del romanzo si muovono in un contesto in continua mutazione, come l’appartamento in cui vivono dove nascono pareti e stanze dove non ci sarebbe spazio neanche per un mobile. Sono caratteri forti, ben delineati, capaci di rimanerti addosso per molto tempo dopo la fine della lettura. Ne seguiamo le vicende come fossero i nostri vicini di casa, amici di una vita, ma anche personaggi temibili che siamo felici di poter osservare divertiti a distanza. “Quando in una famiglia nasce uno scrittore” dice Veronica Raimo all’inizio del libro, non sarà la famiglia bensì lo scrittore a “fare una brutta fine nel tentativo di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi”. Non possiamo che essere d’accordo con lei. Veronica Raimo è una scrittrice formidabile, capace di costruire un romanzo moderno, caldo e da cui non riesci a staccarti fino all’ultima pagina. Un libro dove non c’è Niente di vero ma tutto è sorprendentemente autentico.»

Un uomo sottile di Pierpaolo Vettori

Paolo Mauri propone invece “Un uomo sottile”, scritto da Pierpaolo Vettori e pubblicato dalla casa editrice Neri Pozza.

«In inglese l’espressione vanish into thin air significa all’incirca sparire nel nulla…». Non poteva che iniziare con queste parole Un uomo sottile. Il protagonista di questo libro cerca un uomo che non ha mai visto e che da anni ormai è chiuso in un Istituto di cura di Venezia, colpito da una grave malattia degenerativa. Si tratta di un famoso scrittore, ridotto ormai a una vita assente, privo di memoria, dimentico di chi è stato e di cosa ha rappresentato. Il narratore lo cita solo con il suo acronimo, DDG, ma è evidente si tratti di Daniele Del Giudice: di lui ha letto tutto quello che ha scritto. E in una sorta di sfida impossibile con il destino prova a ritrovarlo, a dargli ancora consistenza, consapevolezza, andando a domandare ai personaggi letterari inventati dall’autore di Atlante Occidentale la storia di quell’uomo, quell’uomo che sembra sparito nel nulla. Ma il protagonista di Un uomo sottile non dialoga soltanto con i personaggi dei romanzi di DDG, racconta in parallelo anche una storia privata: quella della malattia e della guarigione di sua moglie, una malattia che potrebbe apparire simile a quella che ha colpito DDG. Alla fine il narratore decide di andare a trovarlo a Venezia. Oserà aprire la porta di quella stanza ritrovandoselo davanti? Costruito come fossero scatole cinesi, questo romanzo ci mette in contatto con il mistero dell’identità, con la chiaroveggenza della letteratura, con il miracolo dei romanzi che in una forma inaspettata finiscono per custodire la memoria di chi li ha scritti anche quando l’autore non può più ricordarli. Un omaggio, una dichiarazione d’amore verso il potere salvifico della letteratura, e verso uno scrittore che abbiamo tutti amato. Un tributo, un modo per prolungarne ricordo e memoria.

Queste le ragioni della proposta:

«Candido al Premio Strega 2022 il romanzo di Pierpaolo Vettori Un uomo sottile(Neri Pozza), un omaggio alla Scrittura e a quella particolarissima realtà che la Scrittura crea. Lettore di Daniele Del Giudice, il protagonista, Paolo Vetri, entra nei suoi libri e dialoga con i suoi personaggi, creando una sorta di meta-racconto di grande fascino ed eleganza. “Sa perché Del Giudice faceva fatica a scrivere?” chiede Anne, che viene dal racconto Nel Museo di Reims. “Perché non ne vedeva più il senso”. Un uomo sottile si muove nel solco dei misteri della grande letteratura. Un omaggio dunque, ma anche un grido d’allarme.»

Giorni Felici di Zuzu

Infine, l’ultima proposta di oggi è “Giorni Felici” di Zuzu, un fumetto pubblicato da Cocoino Press e proposto da Valeria Parrella. 

Claudia è in bilico tra passato e futuro, tra la voglia di annullarsi in una relazione e la paura di non essere all’altezza dei propri desideri, tra il teatro e la magia. Dopo l’esordio con “Cheese”, Zuzu torna a graffiare il cuore dei lettori, trascinandoli nel vortice di emozioni e nelle calde tonalità pastello dei “Giorni felici”.

Valeria Parrella spiega così le ragioni della sua nomina:

«Ho trovato un fumetto bellissimo che vorrei presentare, in quanto Amica della domenica, al Premio Strega 2022. È Giorni felici di Zuzu, edito da Coconino Press.
Da tempo ormai credo che la nona arte sappia cogliere i momenti cogenti della nostra società con un afflato nuovo, e Zuzu, giovanissima artista, certo si colloca tra i suoi migliori talenti.
Giorni felici è la storia di un provino, incentrato sull’omonima pièce di Beckett e, come in quella, tutto è indefinito e tutto vagola: lì era tra le parole, qui è tra le tavole a pastello.
Il pastello che Zuzu usa è straziante: perché riporta al tipo di disegno dei bambini, eppure nella sua storia sono impiantati i drammi degli adulti. Il provino che la protagonista deve affrontare è una prova esistenziale, è l’accettazione di questo pensiero: se qualcuno ha la fortuna di cogliere i giorni felici, e di rendersene conto nell’istante in cui essi vivono, più doloroso sarà perderli.
Nella protagonista vi è anche una matrice binaria, che ella tiene a bada per cercare di vivere come gli altri, ma che si manifesta in una continua metamorfosi. Eppure, chi la ama la ama così.
Sono sicura che in questi tempi incerti, che tanto interrogano la nostra identità, questo libro, questo fumetto, possa essere un segnale potente di presa di coscienza. Come so che il nostro amato Premio è proprio di questi segnali che si nutre.»

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